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Lettera di commiato

La logistica per la consegna in tutto il mondo di centinaia di milioni di dosi vaccinali che debbono viaggiare a meno 70 gradi, con migliaia di camion e container riconvertiti a freezer, ha una logica quasi militare. Non è roba che si fa in un giorno e sono fiumi di denaro. Al contempo, ci viene presentata l’auto elettrica del futuro, quella di Apple, che farà impallidire la Tesla di Musk, a cui viene lasciato però il ruolo di tour operator dello spazio per i nuovi ricchi.

Ricavo queste e altre notizie dal Corriere della Sera che sta sperimentando il nuovo modo di fare giornalismo a pagamento nell’era delle edizioni online fatte su misura, il famoso on demand.

C’è qualcosa di stonato in tutto questo, un’euforia drogata. Per me un segnale. Con il il vaccino alle porte è tempo di smettere il monitoraggio dei livelli di paura che come un seme è stato seminato ad arte in attesa che la classe politica mettesse fine alle turbolenze intestinali in atto, in vista del futuro e definitivo assetto del potere (e della nomina del prossimo presidente della Repubblica, l’Apple Cardopola pandemia). Il fiume di denaro che i nuovi padroni dovranno gestire nel dopo pandemia non servirà certo a pagare i biscotti e le camomille degli anziani decimati nelle case protette dove li avevamo incarcerati, uccisi dall’egoismo di un modello sociale che tollerava a fatica disabili e improduttivi. Ci ha pensato l’invisibile sicario incappucciato di nero e con la falce in mano, come in un film di Bergman.

In questa poco felliniana “Prova d’orchestra” sono in troppi a stonare. Siamo, con oggi, alla trentottesima dose di questi miei poveri Antidoti culturali, senza logistica alle spalle e senza feedback. È ora di smettere, come feci molto tempo fa con i miei articoli su Ariminum, il giornale che avevo visto nascere per le amorose cure del mio amico e autore Manlio Masini. Me lo ritrovo oggi in mano, quel suo giornale, come un segno, in forma di numero monografico dedicato a Fellini, con la firma di due nuovi direttori, Andrea Montemaggi e il bravo, iperattivo e ormai onnipresente Alessandro Giovanardi. Capisco subito che così come ho iniziato questa avventura con Fellini, con Fellini mi toccherà terminarla.

La monografia che ho fra le mani è articolata in 16 capitoli, ben scritti, alcuni per mano di mie vecchie conoscenze, come Italo Cucci e Italo Minguzzi, poi persi di vista nel dilagare della vita perché impegnati in battaglie e su campi da calcio diversi da quelli che ho praticato io. Una generazione comunque di vecchi riminesi doc che ricompare sulla scena del delitto “felliniano”, richiamata dal Master Chef per cucinare un bel panettoncino di Natale, ben farcito, con gustosi canditi inevitabilmente autoreferenziali; ben incartato nell’arguta critica sui rischi del museo/mausoleo che lo stesso chef stellato riconduce al «vespasiano per i piccioni» aborrito da Fellini. Ma temo sia un dolce avvelenato.

Non vi troverete traccia del ritorno trionfale di Fellini al Grand Hotel voluto da Marco Arpesella nel 1983, dopo anni di “bidoni” tirati dal maestro al paesello natio: quell’omaggio straordinario della città al suo figlio transfuga e bugiardo, con la tv di Stato al completo capitanata da Sergio Zavoli sembra non essere mai esistito. Non c’è traccia della storia (dolorosa) della casina sul porto e del lungo oblio successivo di Fellini che ho avuto il torto di denunciare per un ventennio fino alla nausea; fino a quando l’oggettiva (ma un po’ cinica) bravura del sindaco Gnassi e i milioni del ministro Franceschini non hanno avuto bisogno del colpo di fulmine felliniano per condensarsi improvvisamente dalle nuvole della politica romana e piovere abbondantemente sulla nostra città. Non c’è traccia del cinema Fulgor rinato come bordello parigino più che come amarcord di Amarcord (film non amato dai riminesi). Scomparso anche dalla programmazione della “vernice ”. Scomparso anche Umberto Eco seduto vicino a me e ad Arpesella nel giardino al momento dell’apparizione grandiosa del Grand Rex (che nel souvenir di Cavriani sopravvive solo come fotogramma fuori contesto). E neppure la primigenia e poderosa rivisitazione de La mia Rimini predisposta per il Festival di Cannes sembra mai esistita in questa misteriosa storia del rapporto di Fellini con la sua città. E pur parlando abbondantemente del Libro dei sogni, non c’è traccia della sua versione digitale e trilingue curata da Paolo Fabbri e dal sottoscritto in tre lunghissimi anni di lavoro con Piero Meldini e tanti altri: svaniti nel nulla.

Si chiama damnatio memoriae. E qualunque sia la ragione – o la causa –di questo modo di concepire l’informazione, sappiano gli amici di Ariminum che non ha mai portato a buoni risultati. Nel suo Inferno immaginario preconizzato dal bravo e davvero compianto Dario Zanelli (Edizioni Guaraldi) il povero Fellini dovrà vederne ancora delle belle.

San Marino. “Lontana dai luoghi comuni, vicina a te”

Non sarà sfuggita neppure al turista più disattento la imponente campagna pubblicitaria della vicina Repubblica di San Marino che troneggia nella maxi cartellonistica che tappezza tutta la riviera romagnola con lo slogan “Lontana dai luoghi comuni, vicina a te”.

Anche io ho drizzato le orecchie e spalancato le narici: perché mi è apparsa subito come un clamoroso autogol su cui, con tutto il doveroso rispetto per i creativi che l’hanno ideata e per i molti soldi che deve essere costata, vale forse la pena di ragionare serenamente. Dunque, mi documento.

Lanciata ufficialmente qualche giorno fa a Roma – “luogo comune” al massimo grado – dal segretario di Stato per il Turismo Federico Pedini Amati e dalla direttrice dell’Ufficio del Turismo della Repubblica Nicoletta Corbelli, la campagna è stata affidata al gruppo sammarinese Expansion “Let’s grow!” che sulla propria home page – tanto per restare in tema di luoghi comuni – sbandiera la vignetta di un improbabile Federico Fellini con tanto di cappellaccio e sciarpa rossa con la scritta «Benvenuto nella terra della dolce vita», a seguire le pagine Rock, Beach, Nature, Empire, Castle, Bike, Culture & Food a declinare le attrattive della dolce vita romagnola.

Perché mi colpisce questa campagna? Perché stranamente azzecca per davvero i due temi fondamentali che da sempre caratterizzano la difficoltà di “posizionamento” turistico e soprattutto culturale dell’Antica Repubblica rispetto al “piano strategico della riviera” del bravo, anzi bravissimo Capitan Gnassi che, ai piedi del Titano, cala le sue reti di cattura della paranza turistica che resta dopo il Covid-19.

Dunque, i “luoghi comuni” che la campagna pubblicitaria vorrebbe bollare e contrastare sono quelli che da sempre caratterizzano Rimini e tutta la “palude” – che un tempo lontano era realmente tale – che si dispiega ai piedi dei pinnacoli sammarinesi da conquistare come tanti piccoli Mauro Corona, Walter Bonatti o Achille Compagnoni? Oppure i luoghi comuni sono le idee che da sempre caratterizzano San Marino come un paese di traffici illeciti per evadere le tasse italiane e di fannulloni che hanno nuotato nell’oro vendendo fatture false e location per finti import- export?

Ma il lussureggiante entroterra di boschi, cascate e natura selvaggia che i creativi di Extension si sono inventati per contrastare entrambi questi  luoghi comuni – una specie di ventata di aria fresca! – sembrano rimandare più alla torbida fantasia di un ragioniere frustrato dalla realtà come Salgari (mancano solo le tigri!) che non alla tranquilla serenità delle nostre colline e a una reale “conversione” delle antiche pratiche sammarinesi.

C’è poi il tema –verrebbe da dire “drammatico” – della vicinanza/lontananza di San Marino, letteralmente “un passo” da Rimini, in realtà “lontanissima” dalla costa: ci vuole quasi più tempo a raggiungere il suo centro storico che quello di Bologna. Assassinato nel dopoguerra, per motivi diciamo pure “politici”, il trenino azzurro regalato dal Duce a San Marino, che rappresentava il principale e fascinoso collegamento fra mare e Monte Titano – il libro Sui binari di un sogno. Dai treni scomparsi al futuro della mobilità nel riminese che pubblicai nel 2010 raccontava con dovizia di documentazione fotografica la storia di questa ferrovia perduta –, il problema del collegamento dell’Antica Repubblica con la costa resta irrisolto. Incapaci di ridargli vita (come sarebbe stato possibile, ma non avrebbe risolto il problema…) i governanti sammarinesi di ogni colore politico hanno preferito sostituirlo, dal 1965, con una superstrada ormai da incubo.

Il problema di come porsi “vicino ” ai turisti senza pregare perché aumentino le giornate di pioggia, le sole che vedevano tristi trasferte di pullman salire verso il Titano per uno shopping di paccottiglie da quattro soldi (persino le gondole, hanno masochisticamente notato i sammarinesi in conferenza stampa!) è davvero drammaticamente reale. Tramontata la sirena del divertimentificio riminese e delle sue discoteche, finita l’era dei grandi assembramenti tipo Molo street parade e Notti rosa, i futuri turisti vengono oggi blanditi dalle nuove offerte “culturali” della capitale, a sua volta convertita a green , con le passeggiate soprelevate del nuovo lungomare piantumate a macchia mediterranea, col suo castello vestito a nuovo e le grandi mostre che lo animeranno; con l’intero centro storico riconvertito a grande circo felliniano come alternativa alla spiaggia; e una pletora di ristorantini e ristorantoni a molte stelle che non intendono affatto distruggere il grande luogo comune della mitica piadina ma renderlo ancor più attraente nella logica del “concept bar”.

La controffensiva pubblicitaria di San Marino, la sua risposta di come strappare questo sempre più prezioso turista che a fatica percorrerà il kilometro zero che separa i mille alberghi della costa dal centro storico, per trascinarlo in vetta, appare davvero come la patetica fuga in un sogno.

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Le due Rimini

Ho chiesto a uno dei miei figli che ama il cinema cosa ne pensava di David Lynch. Ha fatto una faccia e spalancato le braccia: «Bà, è come Fellini… Come si fa a dire che non piace…». Avevo appena visto in tv “Una storia vera” che mi era piaciuto da matti e mi vergognavo di conoscere così poco e male questo autore extra-ordinario con oltre 50 film al suo attivo. Per non parlare della sua attività di pittore: la esposizione di 12 litografie, curata dalla Fondation Fellini di Sion, era stata per me la cosa più attraente della grande mostra dedicata a Fellini dentro Castel Sismondo. Roy Menarini, responsabile dell’allestimento riminese, aveva acutamente notato come fosse la prima volta che Lynch confessava di avere avuto Fellini come fonte di ispirazione, anzi come maestro! Ma mio figlio aveva diagnosticato a botta sicura: «Bà, è come Fellini…».

Fellini e Lynch sono un bel paradosso per le nuove generazioni. Pochi hanno il coraggio di dirlo, ma quasi tutti lo pensano: i loro film attraggono e affascinano, certo, si riconosce che sono “importanti”, ma non spenderebbero neppure 3 euro per vederli con gli amici. I più intellettuali vi diranno che “I vitelloni” sono noiosi e prolissi, i più sempliciotti alzando le spalle diranno semplicemente «che palle!». E molti giovani spettatori americani diranno «ma che schifo!» dopo aver visto, se mai lo vedranno, “La mente che cancella”.

Che i riminesi non amino i film di Fellini, Fellini stesso era il primo a saperlo. Per questo ci veniva di nascosto, come tutti sanno. Leggete “Patachedi”, il racconto delle loro scorribande scritto da Titta Benzi, sono davvero esilaranti! E leggete anche “Storia in briciole di una casalinga straripata” della sorella di Federico, Maddalena, che getta uno sguardo da dietro le quinte su questo incredibile personaggio che ha marcato per sempre, prima ancora che la storia del cinema, l’antropologia stessa del nostro Paese, la nostra “dolce vita” fantasticata, il Rex su cui viaggia la nostra immaginazione irrequieta.

I suoi film non piacciono ai giovani, dicevo; e tanto meno ai vecchi, aggiungo. Ma gli “spot” tratti dai suoi film, ridotti a moderni cammei da Youtube, blog visuali, quelli piacciono un sacco! Lo zio matto che da in cima all’albero grida «Voglio una donna!» con la suorina nana che sibila «vin zo’ , pataca!»; o l’Anitona alla fontana di Trevi, i girotondi circensi, i toboga giganti che hanno affascinato persino David Lynch, quelli vanno alla grande: perché sono “felliniani”! Federico, che era un genio, sapeva bene che il suo destino era quello di diventare un aggettivo. Non solo lo sapeva, ma lo dichiarava pubblicamente! Questa è la condanna che gli viene inflitta nel dopo morte del film fortunatamente mai girato, quel “Mastorna” che va e sempre ritorna, sulla terra – perché non c’è altro paradiso – col suo violino nell’astuccio.

Ma la cosa davvero strana è che questo stesso destino sembra riguardare anche David Lynch, il regista americano che nasce a Missoula, nello stato del Montana, lo stesso giorno di Federico: il 20 gennaio, ma “solo” nel 1946 (è dunque esattamente di ben 26 anni più giovane di Fellini). Basta così? Macché: questa sconosciuta cittadina del più misterioso fra gli Stati dell’Unione americana dista pochi chilometri dal borgo minerario di Rimini, o Remini (lo sapevate, vero, che ci sono ben due Rimini, negli Stati Uniti?) , oggi una città fantasma che sta riproponendo come turismo povero le sue capanne da minatore restaurate. E poi non ditemi che i destini dei geni non si intrecciano misteriosamente! Come Fellini anche Lynch inizia la sua carriera come disegnatore. Lynch ha 14 anni quando Fellini inizia ad annotare i suoi sogni. Ne ha 24 quando gira il suo primo corto – “The grandmother ” – storia di un bambino picchiato che fa crescere la nonna da un seme. Cinque anni più tardi, nel ’75, inizierà a girare il suo primo lungometraggio, quello che nel 1977 diventerà il suo  capolavoro, “Eraserhead”.

Di qui in avanti Lynch sperimenta non solo tutti i possibili registri dell’inconscio (come fa Fellini nel “Libro dei sogni”) fino al limite dell’horror (in “Mulholland Drive ”, Palma d’oro a Cannes 2001) ma addirittura “teorizza”– guarda caso – l’esperimento di girare i film senza un copione definito (come ne “L’impero della mente ”) grazie al quale riceve a Venezia il Leone d’oro alla carriera. Fellini applaudiva dal Purgatorio del Mastorna…

Ho sotto gli occhi le copertine che gli allievi dell’Accademia d’arte Laba di Rimini hanno disegnato per raccontare la loro idea di Fellini. Sono dei semplici quaderni concepiti da artisti in erba, testimoni inconsapevoli di questo mistero che accomuna, mi pare, Lynch e Fellini nell’essere protagonisti loro stessi di un film che forse nessuno ha mai visto perché
né Federico né David l’hanno mai concluso; ma che aleggia come un mantra nella creatività diffusa di questa nostra amatissima città di mare, così come nel suo alias americano, nel sassoso Montana. Due registi misteriosamente simili che operano nell’immaginario collettivo.

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