Nel 1979 Federico Fellini girò quello che lui definì «un filmetto » e che io considero invece – assieme a …E la nave va – il suo capolavoro: Prova d’orchestra, due film “musicali”, guarda caso, di una sconcertante attualità (è proprio il caso di usarlo, questo aggettivo), se ne tentassimo una piccola esegesi post Covid-19 in vista della cosiddetta “ripartenza”. La inquietante analogia del virus con la quasi invisibile palla da demolizione che si è abbattuta sull’Auditorium-Italia dove non sembra più possibile suonare “in sincrono ” meriterebbe un intero corso universitario. Dopo le risse critiche che suscitò in tempi dominati dall’ubriacatura post sessantottina sfociata nel craxismo, l’incapacità dei vari orchestrali di concepirsi come “orchestra”, cioè un qualcosa di più del proprio strumento che ciascuno ritiene il migliore, uno spazio in cui la voce di ciascuno si fonde con la voce di tutti e diventa “sinfonia”, lascia anche oggi amareggiati e quasi increduli. La capacità di superare il corporativismo strumentale – sembra sussurrare questo Fellini inaspettatamente “politico”, che conduce tutto il film con la sua stessa vocina chioccia – non può venire dalla logica aberrante rappresentata nella sua indagine dai quattro odiosissimi sindacalisti che ricattano il direttore d’orchestra fino a porre fine alla sua disperata prova perché «i professori» – dicono – sono stanchi e per di più non pagati per l’extra televisivo loro richiesto! La micidiale entropia sociale prodotta da una perversa logica corporativa, e la virulenza seduttiva del mostro televisivo,
educatore perverso, sono ciò che realmente impedisce a un Paese come il nostro di mettere in scena un grande Concerto. E il povero presidente del Consiglio fa davvero la parte del direttore d’orchestra sbeffeggiato da sindacalisti e orchestrali che, alla fine, esasperato, perderà il controllo e griderà con accento tedesco: «Cosa folete, folete mio culo…?!». Ma quando il grande spavento della palla-Covid – che apre una breccia nel muro di questo nostro vetusto edificio sociale “pieno di morti ” – sembrerà per un attimo aver instillato nell’orchestra la sua capacità di respiro unitario (capace cioè di far suonare la stessa musica da molti balconi o su molti computer, da remoto) Fellini dimostra ancora una volta una capacità profetica amara che sembra smentire, purtroppo, ogni possibile lieto fine. Neanche la catastrofe economica incombente servirà a far ripartire l’orchestra… Nulla convertirà le miserie dei nostri poveri musicanti-bagnini o imprenditori di vario tipo, neanche l’inesorabile tic-toc di un gigantesco metronomo collocato sulla cima della palata di Rimini a scandire i rintocchi di un’altra stagione che arriva, di un’altra stagione che se ne va.
A proposito di metronomo: sapete, vero, che cos’è? È un apparecchietto in legno di forma piramidale – con una leva graduata e un peso che ne governava l’oscillazione in base ai bpm, beats per minute (battiti per minuto), leggo su Wikipedia. Il suo brevetto è del 1816: un certo Johann Nepomuk Mälzel gli diede il nome unendo le parole greche: metron = misura + nomos = regola). Ma persino questo regolatore del saper andare a tempo, cosa fondamentale per ogni orchestra degna di questo nome, ha nella sua origine qualcosa di “stonato”: la causa per furto di idee intentato a Mälzel da uno stizzoso orologiaio di Amsterdam, tale Dietrich Nikolaus Winkel. Se persino Beethoven ha dedicato al metronomo il canone a 4 voci “Ta ta ta ta” del 2º movimento della celebre ottava Sinfonia titolando il tema Allegretto scherzando (giuro!) c’è da credere davvero nel potere profetico dei geni come Fellini. Che poi l’ossessivo ticchettare del metronomo sia strettamente connesso allo scorrere del tempo è il più ovvio fra i mille luoghi comuni che costellano i meccanismi della psiche umana. Semplicemente non ci si pensa, anzi, si festeggiano addirittura i compleanni! Il tempo è limitato e la molla del metronomo prima o poi si scarica. Ma non è questo il punto. No, il punto critico non è la limitatezza del tempo disponibile, ma la nostra incapacità di creare una vera sinfonia, andando a tempo, tutti assieme, nel breve tempo che ci è concesso. Anche il cuore, un metronomo naturale perfetto, può avere delle aritmie, denunciando qualche serio problema. E i cuori di un Paese che non sanno battere in sincrono denunciano un Paese malato.
Qui occorre davvero qualcosa di più che non un metronomo, qualcosa che un tempo non lontano – quando inutilmente cercavo di imparare il solfeggio dal maestro Sesani – si sarebbe chiamato “politica culturale”: quella invocata anche oggi dal grido di dolore lanciato dal sindaco Gnassi, che mi ha convinto. Dal palcoscenico del “suo” teatro, che era distrutto, a porte chiuse, a inizio di questa stagione balneare disastrata, ha praticamente invocato il “miracolo” dell’arte, a cui anche io credo… Un grido di dolore in forma di cd, una invocazione a sperare al di là di ogni speranza, al di là di Fellini… Si intitola “Rimini / Artisti uniti per la città”, guardatelo su Youtube, merita di essere ascoltato.
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