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Il testamento di Piero

Riascoltando Il testamento di De André riprendo in mano, quasi rabdomanticamente, quello che ritengo il più bello fra tutti i libri del mio amico Piero Meldini, La falce dell’ultimo quarto, un testo ormai dimenticato, del 2004, edito da Mondadori, badate bene, non da Adelphi, la casa editrice che lo lanciò nel gotha letterario.

Piero è stato mio braccio destro e sinistro, mio occhio e mi orecchio nella conduzione della casa editrice che avrebbe potuto portare anche il suo nome accanto al mio, tanto eravamo in simbiosi.

Fin dai suoi esordi come autore di narrativa ho sempre pensato, mai dichiarandoglielo, che il Meldini saggista fosse di gran lunga migliore del Meldini narratore. E non perché i suoi romanzi non mi piacessero, sia chiaro, ma perché mi sembrava che la scelta della narrazione fantastica, dopo tanti anni di saggistico e rigoroso articolarsi del suo pensiero, di cui aveva dato grandi prove sia in ambito storico che psicoanalitico, fosse in qualche modo l’equivalente di un sintomo nevrotico, l’emergere di un
desiderio troppo a lungo represso e disconosciuto, il bisogno di sperimentare il coté irrazionale e materno della sua creatività: quello narrativo, appunto, auto-concependo e sentendo generarsi in lui personaggi e storie, figure e situazioni in qualche modo autonome, altro da sé, figli, appunto.

Forse la mia è una tesi azzardata, Piero me l’ha già cassata senza scampo in privato, ma continua a sembrarmi che La falce dell’ultimo quarto, il libro del suo “tradimento editoriale” di Adelphi, concepito nell’opulenza (all’epoca) dell’alcova mondadoriana, sia proprio il testamento di uno scrittore deluso dai suoi figli legittimi, quelli nati dall’innamoramento di Roberto Calasso, mitico editore/autore di Adelphi, per il piccolo e geniale bibliotecario riminese.

Notate bene che la fama di Meldini era già ampiamente circolata per le sue straordinarie antologie storiche, segnatamente Reazionaria. Antologia della cultura di destra in Italia, che viene periodicamente riscoperta e consultata come un oracolo dei tempi in cui parlare di «cultura di destra» era una bestemmia, mentre oggi bisognerebbe farla studiare a memoria a Salvini, Meloni e La Russa.

Con quel “tradimento editoriale” – e soprattutto con quel contenuto – Meldini sembrava voler dichiarare di non credere più nell’eternità immanente della fama che deriva dal lascito del proprio dna letterario. La trama del libro è ben più che un indizio in questo senso: in una Rimini pre-gnassica puntigliosamente descritta (mirabile la gita alle Grazie: una foto d’epoca), il mercante di granaglie Bartolomeo Bartolini è annichilito dal non sapersi decidere a chi lasciare la propria eredità, se a un non affidabile nipote o al figlio sognatore melanconico e incapace. Né l’uno né l’altro si piegano al suo bisogno di sopravvivere nelle cose che vorrebbe lasciar loro; e la storia finisce male. L’ossessiva scrittura e riscrittura del Testamento a ogni colpo di scena (che naturalmente non va spiattellato) è lo straordinario espediente letterario che Meldini adotta per raccontare quel disagio.

Ora, è un fatto che tutti e tre i primi romanzi di Meldini firmati Adelphi fossero una straordinaria trilogia sulla morte, antidoti della malinconia, esorcismi letterari compiuti sotto il chiarore magico della Luna. Mentre la falce incombente (per via dell’età) dell’ultimo quarto, con le sue nebbie felliniane che tutto dissolvono e inghiottono, sembra far trasparire le ragioni vere della “fuga amorosa” dell’autore su altre sponde editoriali.

Attenti alle banali spiegazioni di un primo amore ingrigito dal normale tran-tran editoriale che deve scovare di stagione in stagione sempre nuovi talenti da passare nel tritacarne letterario dei premi e delle vendite: sarebbe solo una mezza verità. Piero nega, ma io ricordo bene che Calasso in persona gridò al miracolo laico salutando ne L’Avvocata delle vertigini l’ultimo grande romanzo gnostico della letteratura
italiana. Notate che Meldini era davvero culturalmente e letterariamente molte spanne più in su dei suoi colleghi narratori di quegli anni; e quello era il suo primo romanzo!

Co s’è dunque, e a chi vorrebbe lasciarla Meldini questa sua benedetta eredità? Temo che per l’ex responsabile della più brillante collana di psicoanalisi del dopoguerra la risposta sia fin troppo scontata: assomiglia terribilmente alla nostra vita, alle cose che abbiamo fatto e nelle quali abbiamo forse inutilmente investito.

Ma viviamo in tempi in cui sembra che né figli né nipoti siano interessati a riceverlo, questo lascito. Non figli veri e neppure figli letterari. E neppure la città in quanto tale saprà beneficiarne, anch’essa come inghiottita dalla tempesta in cui precipita il felliniano aereo di Mastorna destinato a restare solo come una sinistra carcassa sulla piazza dove è precipitato, animata ormai solo da fantasmi, a ricordarci che nessuno si salva da solo e che – conclude De André – «quando si muore si muore soli».

Sono personalmente sicuro, sicurissimo, che Piero ha riscritto per l’ennesima volta, in questi anni lunghi di silenzio, il suo Testamento: ovviamente in forma di romanzo. E sono curioso, curiosissimo di leggerlo.

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Paolo Fabbri alias l’Ulisse di Rimini e la nuova traduzione di Joyce l’intraducibile

Omaggio al maestro dei segni da poco scomparso che inventava concorsi di architettura con progetti di sabbia o proponeva il geniale “Sindaco di Fellinia”

Parlando del celebre romanzo Ulisse di James Joyce, Ezra Pound lo descrive così: «Tutti gli uomini dovrebbero unirsi a lodare Ulisse. Coloro che non lo faranno, potranno accontentarsi di un posto negli ordini intellettuali inferiori. Non dico che tutti dovrebbero lodarlo da un medesimo punto di vista; ma tutti gli uomini di lettere seri, sia che scrivano una critica o no, dovranno certamente assumere per proprio conto una posizione critica di fronte a quest’opera».

La provocazione c’è tutta. E io sono uno di quelli che fin dall’inizio delle proprie turbolenze intellettuali accettò questa sfida letteraria estrema, tentando di circumnavigare il mondo assieme a Dante, Joyce e per l’appunto Pound. Non sono mai riuscito, in verità, a “leggere ” l’Ulisse per intero, come si legge un romanzo, ma in compenso sono pieno di reperti bibliografici di tutte le varie edizioni pazzoidi delle opere di Joyce, a partire da quelle di una micro casa editrice veneziana chiamata Il Cavallino, che pubblicò l’incipit di Finnegan’s Wake, sembra con il supporto dello stesso Joyce, titolato Annalivia Plurabelle.

La Legion d’Onore delle Lettere

Perché tanto interesse masochistico per un testo da tutti ritenuto “illeggibile ” e diciamo pure “intraducibile”? E perché poi un testo così ostico dovrebbe aver stimolato così tante traduzioni? Semplice: perché è come guadagnarsi la Legion d’Onore della Repubblica delle lettere, come dice Ezra Pound. In italiano sono “solo” 4 in realtà, da quella classica di De Angelis, passando per quella barricadera di Terrinoni, poi quella superchic di Celati per Einaudi, fino all’ultima recentissima, eroica prova di Mario Biondi – uno dei massimi traduttori italiani contemporanei che ha la sfiga di essersi visto usurpare il nome da Mario Ranno, che in quanto cantante si fa chiamare come lui! – per La Nave di Teseo. Biondi ha tradotto un malloppo che va dalle 1.086 pagine della sua versione più recente fino alle 1278 pagine dei Meridiani Mondadori. Ho appena iniziato a leggere, e credo che stavolta arriverò in fondo.

Cinque motivi

Ma come può saltarmi in mente di farne un di elzeviro su un giornale all’estrema periferia dell’impero? E poi: un “antidoto” a che?

I motivi sono 5. Primo: il 16 giugno 2019 si è celebrato a Genova il 14° Bloomsday – dal nome del protagonista del romanzo – con lettura quasi integrale in italiano e brani in inglese, dalle nove del mattino alla mezzanotte e in luoghi analoghi a quelli del romanzo. La prossima edizione, nel quadro del Festival internazionale della poesia, è stata ammazzata dal Coronavirus, come tante altre manifestazioni, dunque c’è un buco.

Secondo: la prima celebrazione italiana del Bloomsday si tenne a Frosinone il16 giugno del 1982 e alla giornata joyciana parteciparono
l’appena scomparso Enzo Siciliano, amico di Paolo Fabbri (nel ruolo di Joyce) e Dodò D’Amburgo (la famosa spogliarellista) nelle vesti Molly Bloom. L’ambasciata di Irlanda patrocinò la manifestazione.

Terzo: sono amico del traduttore pazzo di questa nuova versione: da almeno quarant’anni coltivava nel cassetto il sogno di questa nuova traduzione. E anche io, fossi stato più ricco.

Quarto: Mario Biondi è amico anche di Piero Meldini, su indicazione
del quale fece nel 1971 una celeberrima traduzione di un testo del capitano di lungo corso John Gregory Bourke con prefazione nientepopodimenoché di Sigmund Freud, titolato per volere di Meldini Escrementi e civiltà. Antropologia del rituale scatologico (mentre il traduttore avrebbe voluto chiamarlo Merda e cultura, più coerente, secondo lui, al più neutro titolo originale di Scatologic Rites of All Nation. Per chi avesse difficoltà interpretative, i riti scatologici (non escatologici) sono quelli che descrivono la “perversione ” assai frequente e apprezzata, sembra, di mangiare la cacca: di qui la ricerca dell’antropologo Bourke, la prefazione di Freud e la decisione di Meldini di inserire il testo (eccezionalmente illustrato…) nella collana di psicoanalisi “La Sfinge” la cui programmazione si deve appunto alla sua bravura e intelligenza. Sul titolo nacque un divertente e divertito battibecco con Mario Biondi che era, e resta, un caratteraccio. Questo libro piaceva molto anche al nostro comune amico Paolo Fabbri.

Quinto: per tutti questi motivi mi piacerebbe molto che Ulisse venisse presentato anche a Rimini, nel corso dell’estate, magari con una lettura in spiaggia, Meldini in veste di Joyce, il nostro sindaco in veste di Leopold Bloom, Marco Missiroli nei panni di Stephan e Vera Bessone come Molly. Produzione di Mario Andreose, editor della Nave di Teseo, che spera di riportare a casa l’investimento non piccolo.

Paolo maestro dei segni

Il senso dell’Antidoto mi pare del tutto evidente: fare un vero omaggio a Paolo Fabbri, maestro dei segni, sottraendosi all’inevitabile gorgo “luogocomunista”, avrebbe detto lui, della retorica celebrativa. Parlando per così dire a suocera perché nuora comprenda (Joyce è una suocera interessante). Ricordo quando si inventava concorsi di architettura inesistenti fatti in spiaggia con i progetti realizzati in sabbia, destinati a sparire alla prima mareggiata, prima che qualsiasi critico potesse visionarli; o la geniale invenzione del Sindaco di Fellinia, una sorta di sindaco estivo di una città di costa estesa da Viserba a Gabicce, con il compianto Andrea G. Pinketts (mai ha svelato cosa sottendesse quel G puntato, neanche al Mystfest che abbiamo costruito assieme) in veste di sceriffo letterario. Oltre alle possibili scenografie con Sfingi, Pinocchio, Greimas, Eco e fellinerie varie, mi piacerebbe che per la messa in scena in spiaggia dei tre viaggi di Ulisse, quello di Dante, quello di Joyce e quello dei Cantos di Pound , una seggiola fosse riservata a lui col suo nome scritto dietro.

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