Categoria: Antidoti (Pagina 10 di 13)

Andare a tempo

Nel 1979 Federico Fellini girò quello che lui definì «un filmetto » e che io considero invece – assieme a …E la nave va – il suo capolavoro: Prova d’orchestra, due film “musicali”, guarda caso, di una sconcertante attualità (è proprio il caso di usarlo, questo aggettivo), se ne tentassimo una piccola esegesi post Covid-19 in vista della cosiddetta “ripartenza”. La inquietante analogia del virus con la quasi invisibile palla da demolizione che si è abbattuta sull’Auditorium-Italia dove non sembra più possibile suonare “in sincrono ” meriterebbe un intero corso universitario. Dopo le risse critiche che suscitò in tempi dominati dall’ubriacatura post sessantottina sfociata nel craxismo, l’incapacità dei vari orchestrali di concepirsi come “orchestra”, cioè un qualcosa di più del proprio strumento che ciascuno ritiene il migliore, uno spazio in cui la voce di ciascuno si fonde con la voce di tutti e diventa “sinfonia”, lascia anche oggi amareggiati e quasi increduli. La capacità di superare il corporativismo strumentale – sembra sussurrare questo Fellini inaspettatamente “politico”, che conduce tutto il film con la sua stessa vocina chioccia – non può venire dalla logica aberrante rappresentata nella sua indagine dai quattro odiosissimi sindacalisti che ricattano il direttore d’orchestra fino a porre fine alla sua disperata prova perché «i professori» – dicono – sono stanchi e per di più non pagati per l’extra televisivo loro richiesto! La micidiale entropia sociale prodotta da una perversa logica corporativa, e la virulenza seduttiva del mostro televisivo,
educatore perverso, sono ciò che realmente impedisce a un Paese come il nostro di mettere in scena un grande Concerto. E il povero presidente del Consiglio fa davvero la parte del direttore d’orchestra sbeffeggiato da sindacalisti e orchestrali che, alla fine, esasperato, perderà il controllo e griderà con accento tedesco: «Cosa folete, folete mio culo…?!». Ma quando il grande spavento della palla-Covid – che apre una breccia nel muro di questo nostro vetusto edificio sociale “pieno di morti ” – sembrerà per un attimo aver instillato nell’orchestra la sua capacità di respiro unitario (capace cioè di far suonare la stessa musica da molti balconi o su molti computer, da remoto) Fellini dimostra ancora una volta una capacità profetica amara che sembra smentire, purtroppo, ogni possibile lieto fine. Neanche la catastrofe economica incombente servirà a far ripartire l’orchestra… Nulla convertirà le miserie dei nostri poveri musicanti-bagnini o imprenditori di vario tipo, neanche l’inesorabile tic-toc di un gigantesco metronomo collocato sulla cima della palata di Rimini a scandire i rintocchi di un’altra stagione che arriva, di un’altra stagione che se ne va.

A proposito di metronomo: sapete, vero, che cos’è? È un apparecchietto in legno di forma piramidale – con una leva graduata e un peso che ne governava l’oscillazione in base ai bpm, beats per minute (battiti per  minuto), leggo su Wikipedia. Il suo brevetto è del 1816: un certo Johann Nepomuk Mälzel gli diede il nome unendo le parole greche: metron = misura + nomos = regola). Ma persino questo regolatore del saper andare a tempo, cosa fondamentale per ogni orchestra degna di questo nome, ha nella sua origine qualcosa di “stonato”: la causa per furto di idee intentato a Mälzel da uno stizzoso orologiaio di Amsterdam, tale Dietrich Nikolaus Winkel. Se persino Beethoven ha dedicato al metronomo il canone a 4 voci “Ta ta ta ta” del 2º movimento della celebre ottava Sinfonia titolando il tema Allegretto scherzando (giuro!) c’è da credere davvero nel potere profetico dei geni come Fellini. Che poi l’ossessivo ticchettare del metronomo sia strettamente connesso allo scorrere del tempo è il più ovvio fra i mille luoghi comuni che costellano i meccanismi della psiche umana. Semplicemente non ci si pensa, anzi, si festeggiano addirittura i compleanni! Il tempo è limitato e la molla del metronomo prima o poi si scarica. Ma non è questo il punto. No, il punto critico non è la limitatezza del tempo disponibile, ma la nostra incapacità di creare una vera sinfonia, andando a tempo, tutti assieme, nel breve tempo che ci è concesso. Anche il cuore, un metronomo naturale perfetto, può avere delle aritmie, denunciando qualche serio problema. E i cuori di un Paese che non sanno battere in sincrono denunciano un Paese malato.

Qui occorre davvero qualcosa di più che non un metronomo, qualcosa che un tempo non lontano – quando inutilmente cercavo di imparare il solfeggio dal maestro Sesani – si sarebbe chiamato “politica culturale”: quella invocata anche oggi dal grido di dolore lanciato dal sindaco Gnassi, che mi ha convinto. Dal palcoscenico del “suo” teatro, che era distrutto, a porte chiuse, a inizio di questa stagione balneare disastrata, ha praticamente invocato il “miracolo” dell’arte, a cui anche io credo… Un grido di dolore in forma di cd, una invocazione a sperare al di là di ogni speranza, al di là di Fellini… Si intitola “Rimini / Artisti uniti per la città”, guardatelo su Youtube, merita di essere ascoltato.

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Paolo Fabbri alias l’Ulisse di Rimini e la nuova traduzione di Joyce l’intraducibile

Omaggio al maestro dei segni da poco scomparso che inventava concorsi di architettura con progetti di sabbia o proponeva il geniale “Sindaco di Fellinia”

Parlando del celebre romanzo Ulisse di James Joyce, Ezra Pound lo descrive così: «Tutti gli uomini dovrebbero unirsi a lodare Ulisse. Coloro che non lo faranno, potranno accontentarsi di un posto negli ordini intellettuali inferiori. Non dico che tutti dovrebbero lodarlo da un medesimo punto di vista; ma tutti gli uomini di lettere seri, sia che scrivano una critica o no, dovranno certamente assumere per proprio conto una posizione critica di fronte a quest’opera».

La provocazione c’è tutta. E io sono uno di quelli che fin dall’inizio delle proprie turbolenze intellettuali accettò questa sfida letteraria estrema, tentando di circumnavigare il mondo assieme a Dante, Joyce e per l’appunto Pound. Non sono mai riuscito, in verità, a “leggere ” l’Ulisse per intero, come si legge un romanzo, ma in compenso sono pieno di reperti bibliografici di tutte le varie edizioni pazzoidi delle opere di Joyce, a partire da quelle di una micro casa editrice veneziana chiamata Il Cavallino, che pubblicò l’incipit di Finnegan’s Wake, sembra con il supporto dello stesso Joyce, titolato Annalivia Plurabelle.

La Legion d’Onore delle Lettere

Perché tanto interesse masochistico per un testo da tutti ritenuto “illeggibile ” e diciamo pure “intraducibile”? E perché poi un testo così ostico dovrebbe aver stimolato così tante traduzioni? Semplice: perché è come guadagnarsi la Legion d’Onore della Repubblica delle lettere, come dice Ezra Pound. In italiano sono “solo” 4 in realtà, da quella classica di De Angelis, passando per quella barricadera di Terrinoni, poi quella superchic di Celati per Einaudi, fino all’ultima recentissima, eroica prova di Mario Biondi – uno dei massimi traduttori italiani contemporanei che ha la sfiga di essersi visto usurpare il nome da Mario Ranno, che in quanto cantante si fa chiamare come lui! – per La Nave di Teseo. Biondi ha tradotto un malloppo che va dalle 1.086 pagine della sua versione più recente fino alle 1278 pagine dei Meridiani Mondadori. Ho appena iniziato a leggere, e credo che stavolta arriverò in fondo.

Cinque motivi

Ma come può saltarmi in mente di farne un di elzeviro su un giornale all’estrema periferia dell’impero? E poi: un “antidoto” a che?

I motivi sono 5. Primo: il 16 giugno 2019 si è celebrato a Genova il 14° Bloomsday – dal nome del protagonista del romanzo – con lettura quasi integrale in italiano e brani in inglese, dalle nove del mattino alla mezzanotte e in luoghi analoghi a quelli del romanzo. La prossima edizione, nel quadro del Festival internazionale della poesia, è stata ammazzata dal Coronavirus, come tante altre manifestazioni, dunque c’è un buco.

Secondo: la prima celebrazione italiana del Bloomsday si tenne a Frosinone il16 giugno del 1982 e alla giornata joyciana parteciparono
l’appena scomparso Enzo Siciliano, amico di Paolo Fabbri (nel ruolo di Joyce) e Dodò D’Amburgo (la famosa spogliarellista) nelle vesti Molly Bloom. L’ambasciata di Irlanda patrocinò la manifestazione.

Terzo: sono amico del traduttore pazzo di questa nuova versione: da almeno quarant’anni coltivava nel cassetto il sogno di questa nuova traduzione. E anche io, fossi stato più ricco.

Quarto: Mario Biondi è amico anche di Piero Meldini, su indicazione
del quale fece nel 1971 una celeberrima traduzione di un testo del capitano di lungo corso John Gregory Bourke con prefazione nientepopodimenoché di Sigmund Freud, titolato per volere di Meldini Escrementi e civiltà. Antropologia del rituale scatologico (mentre il traduttore avrebbe voluto chiamarlo Merda e cultura, più coerente, secondo lui, al più neutro titolo originale di Scatologic Rites of All Nation. Per chi avesse difficoltà interpretative, i riti scatologici (non escatologici) sono quelli che descrivono la “perversione ” assai frequente e apprezzata, sembra, di mangiare la cacca: di qui la ricerca dell’antropologo Bourke, la prefazione di Freud e la decisione di Meldini di inserire il testo (eccezionalmente illustrato…) nella collana di psicoanalisi “La Sfinge” la cui programmazione si deve appunto alla sua bravura e intelligenza. Sul titolo nacque un divertente e divertito battibecco con Mario Biondi che era, e resta, un caratteraccio. Questo libro piaceva molto anche al nostro comune amico Paolo Fabbri.

Quinto: per tutti questi motivi mi piacerebbe molto che Ulisse venisse presentato anche a Rimini, nel corso dell’estate, magari con una lettura in spiaggia, Meldini in veste di Joyce, il nostro sindaco in veste di Leopold Bloom, Marco Missiroli nei panni di Stephan e Vera Bessone come Molly. Produzione di Mario Andreose, editor della Nave di Teseo, che spera di riportare a casa l’investimento non piccolo.

Paolo maestro dei segni

Il senso dell’Antidoto mi pare del tutto evidente: fare un vero omaggio a Paolo Fabbri, maestro dei segni, sottraendosi all’inevitabile gorgo “luogocomunista”, avrebbe detto lui, della retorica celebrativa. Parlando per così dire a suocera perché nuora comprenda (Joyce è una suocera interessante). Ricordo quando si inventava concorsi di architettura inesistenti fatti in spiaggia con i progetti realizzati in sabbia, destinati a sparire alla prima mareggiata, prima che qualsiasi critico potesse visionarli; o la geniale invenzione del Sindaco di Fellinia, una sorta di sindaco estivo di una città di costa estesa da Viserba a Gabicce, con il compianto Andrea G. Pinketts (mai ha svelato cosa sottendesse quel G puntato, neanche al Mystfest che abbiamo costruito assieme) in veste di sceriffo letterario. Oltre alle possibili scenografie con Sfingi, Pinocchio, Greimas, Eco e fellinerie varie, mi piacerebbe che per la messa in scena in spiaggia dei tre viaggi di Ulisse, quello di Dante, quello di Joyce e quello dei Cantos di Pound , una seggiola fosse riservata a lui col suo nome scritto dietro.

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Insegnanti. Gli eroi del futuro

Colpisce nel dibattito politico, culturale e religioso, di oggi e di sempre, la costante contrapposizione fra vecchio e nuovo. Ce lo fa notare anche il  Vangelo di Luca: “Nessuno mette vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo fa scoppiare gli otri, il vino si spande, e gli otri vanno perduti. … E nessuno, che abbia bevuto vino vecchio, ne desidera del nuovo, perché dice: ‘Il vecchio è buono’ “.

Avrebbero dovuto considerarlo Beppe Grillo e il “rottamatore” di un tempo non lontano, che i loro rispettivi vini nuovi sarebbero finiti miseramente sparsi a terra dopo aver rotto le vecchie botti istituzionali. Un disastro: botti sfasciate e vino ‘nuovo’ (buono o cattivo che fosse) per i topi e le blatte, questo il quadro desolante  che abbiamo sotto gli occhi.

Stiamo parlando, lo capite bene, del vino del buon governo, da bere con moderazione, senza giungere all’ubriachezza che produce violenza sulla società civile e molestia alla intraprendenza privata; e allieta il cuore dell’uomo. Pare tuttavia una mission impossible se si considera che nell’ultima cena, Gesù lo assume a segno del suo sangue versato per la salvezza del mondo. Si capisce bene che questo inaugura bensì la via della Chiesa ( lunga e piena di errori, ma su cui Satana non potrà prevalere), ma a ben guardare  non v’è dubbio  anche quella dello Stato: per ben governare laicamente occorre dare il sangue, non succhiarlo al Paese!
E’ evidente che occorre domandarsi chi sono le botti (oggi refrigerate e in acciaio inox) e cos’è il vino.  Degli Apostoli che nel recente giorno di Pentecoste iniziano a parlare altre lingue, Agostino d’Ippona, li definisce “otri nuovi”. E dei Giudei che li sfottevano dicendo “sono ubriachi di mosto” dice che non avevano del tutto torto, perché erano “otri riempiti di vino nuovo”; e “dal vino in ebollizione sgorgavano le diverse lingue dei popoli”! Interessante, non trovate?

Che dire dunque? Bisogna prima costruire botti nuove per potervi immettere – se la vendemmia è  stata prodiga in qualità e quantità   – del buon vino “giovane” sapientemente trattato da enologi competenti (come il  Giacomo Tachis del Sassicaia,  se non si vuole strizzare l’occhio al protagonista delle Nozze di Cana…)? Ci sono stati in realtà, nella nostra storia recente, almeno due tentativi di assalto programmato alle Istituzioni da parte di “portatori di novità” che prevedevano la preliminare costruzione di botti nuove: anch’essi falliti clamorosamente. Quello del vecchio PCI di Napolitano e quello di Mani Pulite col picconatore Cossiga finto pazzo. Napolitano morirà affogato nei suoi troppi benefit  da ex-Regnante; mentre dallo scomparso Di Pietro discendono ahimè,  nelle paludi della Giustizia, Davigo e Palamara oltre a un Ministro  che non ha precisamente le physique du rôle.

Come si possano dunque fare le due cose contemporaneamente (costruire solide botti  nuove – il famigerato “uomo nuovo” – e piantare una vigna, anzi molte vigne culturali – di Sangiovese, Verdicchio, Primitivo, Passerina, e chi più ne ha più ne metta, quante sono le culture politico-enologiche italiane –  per ricavarne ovunque buon vino nuovo, ecco il dilemma da affrontare!

La risposta pare a me tanto semplice quanto  difficile da realizzare: occorre partire dalla Scuola. In pochi anni si formerebbe una nuova “cantina” istituzionale riempita di vini eccellenti, non solo destinati all’esportazione, come accade oggi: il direttore finanziario  della mitica Apple del vostro i-phone si chiama, guarda caso, Luca  Maestri, romano! Intervistato dal Corriere dice: “L’università italiana mi ha preparato bene, in Italia c’è talento, manca solo la capacità di fare sistema”. In questo stesso momento in cui voi leggete sta nascendo da qualche parte il futuro Presidente della Repubblica, il futuro Rudolf Nureyev, il futuro Steve Jobs (che in realtà era figlio di un immigrato siriano dato in adozione ai coniugi Paul e Clara Jobs, nome originario Abdul Latif Jandali, ricordatelo a Salvini…).

Ma la giovane e intelligente Nera d’Avola, la Ministra Lucia Azzolina, ha  dovuto toccare con mano quanto sia difficile “mettere in moto” la macchina scolastica che dovrebbe traghettare nel futuro ogni possibile riforma! Ci ha guadagnato solo insulti e scorta.

Ci aveva provato non molti anni prima un’altra Ministra , Maristella Gelmini, una Franciacorta bresciana, diciamo, con alle spalle la corazzata Berlusca: ma anche lei non è  andata lontano. Che fine hanno fatto i suoi “Learning Object” che tanto ci avevano entusiasmato?
Eppure non bisogna scoraggiarsi: gli insegnanti saranno gli “eroi” del futuro” come gli infermieri sono stati quelli della Pandemia.

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