Potere mediatico della fama. Papa Francesco, grazie alla legge dei tubi catodici comunicanti, ha acceso l’interesse planetario nei confronti di Francesco d’Assisi. A lui si ispira il nuovo Pontefice, inteso a far dimorare la Curia nella culla di Madama Povertà. “Per tutti, credenti e agnostici, persone colte e gente semplice, Francesco d’Assisi costituisce una sorta di icona”, ha scritto Gianfranco Ravasi nella recente puntata di “Religione e società” sulla pagina Domenicale del Sole 24 Ore. Citando, come suo solito, una mole di testi, saggistici, sì, ma anche letterari (la traduzione, per merito di Crocetti, del Francesco di Nikos Kazantzakis e Il romanzo di s. Francesco redatto dall’ex cannibale – oggi, forse, chierichetto con la mascella smussata – Aldo Nove). Manca, però, il succo più profumato di Francesco, le sue regole. La storia delle regole di questo irregolare è interessante. I “fraticelli” furono confermati da Papa Innocenzo X nel 1210, oralmente. Seguivano la via di alcuni versetti evangelici, che ancora non si traducevano in norma. Tra questi il vigoroso versetto 24 del capitolo 16 del Vangelo di Matteo: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Di fronte a tale imperativo, ogni regola è vento. Ma poiché i seguaci di Francesco aumentano, e ogni esistenza ha bisogno di cerchiarsi in una formula, nel 1221 San Francesco decide di comporre la prima Regula. Francesco predica l’assenza di ogni possedimento, l’orrore del denaro (“Assolutamente i frati devono allontanarsi dal denaro”), l’inutilità di dimorare in un luogo, in un convento. Una vita oltremodo dura per i frati. Nel 1223, su invito di frate Elia, con la promessa che non “la faccia troppo aspra”, Francesco torna dentro la Regula e la ricompila, in forma neutra: questa è la vita che viene autenticata da Onorio III. Già dal 1221 Francesco aveva abbandonato la guida dell’Ordine, attratto da una vita più intima con Dio. La Regula primitiva, di corrusca e coerente potenza (“Amici sono quelli che gratuitamente e a torto infieriscono su di noi, donandoci dolore e ingiuria, tormento e sputo, martirio e morte”), è oggetto di una nuova traduzione compilata da Guaraldi nel 2013. Il progetto s’inserisce nella collana “Le regole della felicità”: ricalcando le grandi regole della tradizione cristiana (da quella di Pacomio e di Benedetto, a quella di Agostino) si distillano parole necessarie a vivere coerentemente oggi. Il tentativo di vitalizzare le regole attraverso una nuova traduzione (a volte poeticamente estrema) si basa su un dato editorialmente oggettivo: i “classici”, latini, greci, certo, ma anche la miniera di testi dei Padri della Chiesa, non esce, in sostanze, dalle maglie di traduzioni universitarie. Corrette, ma illeggibili. Così, i testi capitali della nostra tradizione persistono intoccati, se non come strumenti di studio. Esiste invece una sapienza sotterranea e viva, quella, ad esempio, delle traduzioni di Eschilo per mano di Pier Paolo Pasolini, dell’Odissea per merito di Emilio Villa e di San Paolo per furia verbale di Giovanni Testori, che contribuisce all’eternità, oggi, ora, qui, di quei capolavori. Abbiamo la presunzione di aver fatto rivivere San Francesco. Non come santino, ma in urla e irregolarità.
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