È scomparso non molti giorni fa Franco Maria Ricci. «E chi è?» ha commentato laconico un mio conoscente, lasciandomi annichilito. «Ah, quello del labirinto di bambù più grande al mondo, vicino a Parma…». Devo smetterla di sorprendermi. Non è grave, usava intercalare Paolo Fabbri.

«Quello del labirinto»

Sì, è proprio quello del labirinto, ma sono gli anni della vecchiaia. Forse neppure voi che vi apprestate a leggere sapete chi è stato realmente FMR – così si firmava in breve – giocando sulla pronuncia francese della sigla e phémère, cioè effimero. Come la memoria di ciascuno di noi. Lo psichiatra Vittorino Andreoli ci ha scritto un bel libretto, appena edito, su questa “ombra effimera” che è l’impronta che ciascuno di noi lascia sulla sabbia della propria vita. Dunque, non è grave. Ma ho voglia lo stesso di dirvi qualcosa di lui, non fosse che perché sono stato suo amico e i suoi anni sono stati i miei anni.

È stato il più grande editore d’arte che l’Italia abbia avuto. La sua storia inizia con la ristampa anastatica della Oratio dominica, un capolavoro tipografico di G. Battista Bodoni stampata originariamente nel 1806 a Parma in occasione del viaggio del papa Pio VII a Parigi per l’incoronazione di Napoleone. Ricci, grafico raffinatissimo, lo ripropose nel 1965 in occasione del discorso di Paolo VI alle Nazioni Unite per la pace nel mondo. Stampato su carta filigranata con lo stemma pontificio, il testo contiene la traduzione in 155 lingue del Pater noster in caratteri bodoniani, appunto. Fu un evento clamoroso.

Nel 1970 Ricci si getta in un’altra impresa apparentemente folle, di segno culturale opposto: la ristampa della grande Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, la summa dell’Illuminismo, 12 volumi in facsimile per le tavole, 5 per i testi e uno di presentazione firmato da Borges. Fu invece un successo eclatante di oltre 5mila copie nel mondo. L’opera fu terminata nel 1980. Fu questo il decennio della nostra amicizia. Per questo posseggo una copia della sua Encyclopédie

Poi nel 1982, insieme ad alcuni collaboratori (fra cui Vittorio Sgarbi, già, proprio lui!), dà vita alla rivista che semplicemente porta il suo nome: FMR.

Un principe a Francoforte

Lo ricordo proprio così, come in questa foto, elegantissimo, con quel sorriso ironico stampato sul volto, l’erre moscia, la sua rosa di corallo sulla giacca impeccabile. Ci incrociavamo nei corridoi della gigantesca Fiera del Libro di Francoforte, a fare il controcanto all’altro protagonista indiscusso di quegli anni, Giulio Einaudi. Due principi: il figlio del Presidente con la sua corte alle feste esclusive nei castelli dei dintorni, FMR e noi nelle bettole del centro. I suoi stand erano degli scrigni di seta nera e lacca, come le copertine dei suoi volumi.

Cosa lo accomunasse a noi, gruppetto di editori squattrinati e barricaderi del Sessantotto italiano, resta un mistero. Forse proprio quella voglia di osare l’impensabile, cambiare il mondo all’insegna della bellezza. Quello stesso sogno di grandezza che lo portò a pensare di conquistare gli Usa, stampando la rivista in inglese, trasportandola in America con un cargo aereo dedicato. Una pazzia con molte zone d’ombra, mafia inclusa. Fu l’inizio del declino.

La cultura come merce

La notizia della sua morte mi giunge in contemporanea con quella che anche, la Frankfurter Buchmesse sarà prevalentemente digitale, salvo qualche piccolo “segno” ancora dal vivo. È davvero la fine di un mondo. Attenzione però. Qui siamo in Germania e questa non è solo la morte del vecchio modo di fare fiera: è la metamorfosi profonda del modo stesso di fare editoria mettendo fine a tutte le incertezze “liquide” e “gratuite” della prima caotica fase dell’era digitale.

Il sito ufficiale della Fiera è perentorio: «Tutti insieme». Nella maccheronica traduzioni automatica, la sintesi del futuro è perfetta: «Anche nel 2020 Frankfurter Buchmesse sarà ancora il mercato più importante al mondo per la stampa e i contenuti digitali, nonché un importante evento sociale e culturale».

È quel «nonché» che mi inquieta. Prima vengono i diritti, poi la cultura. Voi li chiamate ancora «diritti d’autore», ma ormai sono definitivamente solo «diritti d’editore». Il povero autore è solo la materia prima di un complesso processo industriale di tipo ormai planetario e per definizione “delocalizzato”. Persino graficamente il sito ha l’aspetto di una Panzer-Division pronta all’attacco del futuro mercato planetario dei diritti. Non so se piacerebbe a Franco Maria Ricci, raffinato designer.

I tedeschi giocano duro e blindano il nuovo modo di intessere affari col patrocinio diretto del loro ministero della Cultura, anzi, verrebbe anzi da dire: sotto la rigida direzione dello Stato che ha investito nel progetto “Neu Start Kultur” una barcata di milioni che metà basterebbe ad alfabetizzare Asia e Africa.

Nessuno si faccia illusioni per il futuro della cultura. Merce era e merce rimarrà.

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