Renato Barilli. Ciò che più temo è che nessuno si ricordi di me
«Il fatto che lei sia qui a Bologna, in questo giorno di implacabile afa, davanti a me, mi pare un miracolo. Una visione. Forse un’ allucinazione».
Non so se Renato Barilli stia scherzando, in un pomeriggio di agosto in cui anche i grilli aspirerebbero a mettersi sotto il ventilatore, o sia serio e compunto. Propenderei per la prima ipotesi se non fosse per un curioso vittimismo che lo anima. Gli chiedo se soffre della sindrome di accerchiamento. Mi risponde con spiritosa prontezza che per accerchiare si richiederebbe la presenza concreta di un soggetto e lui da tempoè sparito dai radar. Puro ectoplasma, che però ha fatto in tempo a darci un libretto sul postmoderno (edito da Guaraldi):
«Non è l’ ennesima tirata filosofica sul debolismo»,
dice con vaga e sorniona cattiveria. E il pensiero corre a Gianni Vattimo. Se Barilli, critico d’ arte, quasi ottantenne, tra gli alfieri del Gruppo 63, fosse il nome di una strada, faremmo una certa fatica a trovarla. Ma una volta intercettata si vedrebbe un gran via vai di persone, un traffico di gente e cose che hanno sostato o l’ hanno semplicemente attraversata. Del resto, un paio d’ anni fa, uscì un suo ponderoso autoritratto (edito da Lupetti), ricco di episodi e di nomi e soprattutto attraversato da una certa paura di essere dimenticato. La chiamerei sindrome di abbandono. Davvero teme che nessuno la ricordi più, per quel che ha fatto e detto nel corso della sua vita?
«La paura c’ è ed è reale. Le faccio un esempio: sono tra coloro che hanno dato vita al Gruppo 63, ricorrono i cinquant’ anni della sua fondazione, non c’ è nessuno, dico nessuno, che ricordi che a quell’ avventura partecipai anch’ io. Mi sento come un paria. È la triste realtà».
La fa soffrire?
«Sì, e trovo sia un’ ingiustizia. Una forma di esclusione».
Si è dato una spiegazione?
«Ho provato. Pensai: sono antipatico? Vabbè, ma non più degli altri. Ho compiuto azioni riprovevoli? Non credo e comunque non tali da giustificare questo accanimento. Ho dato fastidio? Non mi sembra».
E allora?
«Un sospetto ce l’ ho. Credo che questo stato di cose dipenda molto dalla mia doppia natura. Da un lato esperto di arti visive, dall’ altro critico letterario. Sa cosa mi dicevano gli amici? Quelli che si occupavano d’ arte dicevano: Renato concentrati sulla letteratura che lì sei bravissimo; e i letterati invece mi invitavano a occuparmi d’ arte, sperticandosi in lodi».
Lei è un equivoco vivente.
«Non scherzi, la cosa mi fa soffrire».
Condannato all’ inesistenza.
«Non l’ auguro a nessuno. Fin da bambino agognavo la socievolezza».
Cosa ricorda dell’ infanzia?
«Pochissimo del fascismo, sono stato appena figlio della lupa e poi tutto si è dissolto. Invece ho ancora nella testa i rumori della guerra. Sperimentai tutti i tipi di bombardamento. Sento ancora il cupo ronzio delle fortezze volanti. Luccicavano in alto come enormi sardine d’ argento, emanando un suono simile ai quintali di ghiaia scaricati di colpo. Mi distraevo e proteggevo, leggendo».
Cosa?
«Salgari, innanzitutto. Le sue avventure erano più forti dell’ orrore della guerra. E poi, più grande, scoprii, Pascoli. Uno dei miei primi amori. Ma già eravamo negli anni Cinquanta».
Com’ era la vita a Bologna in quel periodo?
«Intensa, varia, prolifica. Mi iscrissi a ingegneria. Facoltà virile, maschia, impegnativa. Inadatta a un temperamento curioso e polivalente, come il mio. Mi venne in soccorso una meningite virale che fiaccò le mie difese intellettuali. Finii così a Lettere. E lì ho avuto la possibilità di conoscere e frequentare Luciano Anceschi».
Lo studioso di estetica?
«Proprio lui, allievo di Antonio Banfi, mentalmente più agile del suo maestro. La cosa importante che ho appreso è che una teoria più che imporre dogmi deve liberare da quelli esistenti. Fu splendido, anche se sfibrato dalla beghe accademiche. Peccato che soffrì di un invecchiamento precoce. A lui, in parte devo, le distanze che presi dal cosiddetto marxismo letterario».
Dalle posizioni espresse da Lukács?
«Che erano poi quelle difese dagli intellettuali comunisti. Posso vantarmi di aver sentito fin da subito un’ avversione per l’ “impegno”. È stato naturale in seguito dar vita al Gruppo 63. Lukács era la nostra bestia nera: il richiamo all’ ordine e l’ esaltazione delle classi popolari. Chi da noi se ne fece interprete stucchevole fu Vasco Pratolini».
Ma il vostro successo da cosa dipese?
«Dal bisogno di svecchiamento. Non se ne poteva più del bello stile toscaneggiante. Come neoavanguardia non abbiamo inventato nulla. Abbiamo solo esteso e democratizzato le invenzioni delle avanguardie storiche. Umberto Eco lo ha detto benissimo: siamo stati la “generazione di Nettuno”. Lavoravamo sott’ acqua, mentre i nostri padri nobili furono tellurici, esplosivi, dirompenti».
Chi sono stati i più talentuosi del gruppo?
«Avrei difficoltà a distinguere i più bravi. Sanguineti fu straordinario con il suo Capriccio italiano; Balestrini ha mostrato nel tempo una magnifica tenuta; i “Nuovissimi”, con la loro poesia, furono la punta di attacco; Eco è stato una specie di fratello maggiore. Fu il primo ad avvicinarsi all’ industria culturale a capirne i meccanismi e trovo determinante il contributo che diede con Opera aperta. Peccato che sia finito a scrivere romanzi».
Peccato perché?
«Li trovo dei divertissement. E quello che poteva anche essere una piacevole vacanza è diventata la sua occupazione principale». Non è un po’ invidioso?
«No, sono solo un piccolo intellettuale, petulante e intransigente».
Piccolo ma agguerrito e col tempo anche potente.
«Ho spesso rischiato il fallimento. Potevo restare il professorino di lettere di un istituto privato; potevo deprimermi dopo la figura miseranda che feci per un colloquio in vista di una borsa di studio per gli Stati Uniti; potrei dirle quanto ho sospirato prima di entrare stabilmente all’ Università. E solo dopo tutto questo che la fortuna ha cominciato a girare. Agli inizi degli anni Settanta, con l’ aiuto di Argan, fui messo in cattedra e subito dopo, morto Francesco Arcangeli, mi ritrovai alla testa dell’ Istituto bolognese di Storia dell’ Arte e, pur con fasi alterne, per un quarto di secolo vi ho svolto un ruolo intenso».
Quell’ istituto era il coagulo dell’ esperienza longhiana.
«Direi il luogo più sacro all’ eredità di Longhi. Di fronte al quale mi sentivo un miscredente. Voglio dire che ero, come quasi tutti, pronto a riconoscere in lui le qualità stilistiche dello scrittore, ma a deprecare il suo inveterato naturalismo che lo portava a disprezzare tutte, o quasi, le esperienze novecentesche».
Cosa pensa delle due grandi esperienze pittoriche del Novecento, almeno della prima metà, cioè De Chirico e Guttuso?
«Con Guttuso sono stato forse fin troppo duro nella condanna. Sebbene sia stato il capofila del rigurgito di naturalismo che si ammantava di falso progressismo, gli riconosco a posteriori un indubbio talento. Il caso di De Chirico è del tutto singolare. Pensavo, come tutti, che finiti gli anni Venti, non avesse più nulla da dire e che la sua occupazione fosse ormai quella di stendere dipinti orribili e di pessimo gusto».
E invece?
«Mi accorsi, negli anni Settanta, che quel suo ricopiare, o rifare, in modi volutamente eccessivi e caricaturali le sue opere famose del periodo metafisico, ma utilizzando colori caramellosi, insomma quel suo imperterrito “citare”, lo inseriva a pieno titolo nel postmoderno. De Chirico è stato l’ espressione di una “neg-avanguardia”, di un’ avanguardia con il segno meno che capovolge i valori progressisti, come succede in algebra. Ma nessuno si sognerebbe di condannare come reazionari i numeri negativi».
Ma quando un critico dà un giudizio e sente, col tempo, di averlo sbagliato che fa?
«Non lo so. Molti fan finta di niente. Io non ho paura di ricredermi».
Le è accaduto?
«Agli inizi degli anni Sessanta, quando andavo a Milano, frequentavo di tanto in tanto il Bar Giamaica e mi vedevo spesso con Piero Manzoni. A me non piacevano le cose che faceva. In quel momento stava consumando una fase non eccezionale, quella dei “monocromi bianchi”. Poi partii per Parigi dove stetti per più di un anno. Non ero accanto a lui quando ha fatto le sue opere davvero rivoluzionarie: la merda in scatola, il filo lungo all’ infinito e altro. Mi rammarico, ma ho rimediato sostenendo i suoi eredi: De Dominicis e Cattelan».
Accennava al suo periodo francese.
«Sono stato decisamente un francofono. Amico di Jean Dubuffet e di Alain Robbe-Grillet. Le sue teorie sul “Nouveau roman” furono una svolta. Non ho amato Roland Barthes, perso dietro il sogno allora alla moda della semiotica. E l’ arrivo di Michel Foucault e compagni mi ha turbato, non li ho capiti, trovandoli inutilmente ambiziosi. Ho considerato migliori i loro padri: Sartre e Merlau-Ponty».
Ma è vero che in Francia la chiamavano “Renet Barillet”?
«In realtà, questo sfottò è venuto dalla bocca di Giuseppe Guglielmi, fratello di Angelo, noto per le sue battute. I francesi non si sono troppo accorti del mio amore per loro, quello è l’ unico paese in cui non sono mai stato tradotto».
Riecco il tono lamentoso, la sindrome di accerchiamento.
«Magari mi accerchiassero, invece sento solo il silenzio attorno a me. Che è l’ arma più subdola. Non mi stroncano neppure, mi ignorano».
Non è che le fanno scontare le sue contaminazioni con il potere politico?
«Se allude a Craxi, ebbene vidi in lui un leader e una speranza per il Paese. Mi sbagliavo. Politicamente sono sempre stato un socialdemocratico. E per questo gli amici del Gruppo 63 mi sottoposero, già allora, a una specie di processo, dal quale uscii indenne. Sono stato per il Psi responsabile nazionale per le arti. Ho tentato di fare qualcosa in quella direzione anche se, lo devo ammettere, talvolta ne ho approfittato per proporre le mie mostre».
È anche pittore?
«Certo. Ho perfino frequentato da giovane l’ Accademia delle Belle Arti».
Non capisco se sia più egocentrico, masochista o equanime nel raccontarsi.
«Tenderei a essere equanime, talvolta ci riesco anche per una indubbia pulsione masochistica, tanto da riuscire a infliggermi le qualifiche più odiose. Ritengo di essere l’ autore che, nonostante una produzione di ormai sessant’ anni, viene più di frequente omesso. Con un pizzico di divertimento mi definisco ormai come un calviniano “critico inesistente”. Ma in fondo, lo ammetto, in tutto questo ci può anche essere una punta di vanità e di egocentrismo. Conosco bene l’ arte di giocare a rovescio, di capovolgere il tavolo. L’ ho appresa da Robbe-Grillet, del quale rimasi amico fino a quando non stroncai il suo cinema. Faceva film duri, legnosi, prefabbricati. Mi tolse il saluto. E fui cancellato dalle sue volontà testamentarie. Credo di aver rivestito un ruolo importante per lui. Ma nelle sue memorie non c’ è nessuna menzione, neppure marginale o di sfuggita. Nessuna traccia di me».
ANTONIO GNOLI