Riflettori ormai accesi sulla 29ª edizione del Si fest, il Festival della fotografia di Savignano sul Rubicone che in quasi un trentennio si è guadagnato sul campo un ruolo egemone a livello ben più che nazionale. Quest’anno il festival mette l’accento sul sì. Dal “Savignano immagini” della sua origine borghigiana diventa “Sì, vogliamo esserci!” a sottolineare la necessità di ripartire dalle “idee” in un momento come quello attuale in cui il nostro stesso modo di vedere, fotografare e ri-organizzare il mondo, viene messo in discussione.
Un ritorno alle origini del festival, con la sua disseminazione quasi liquida sul territorio, la riscoperta di quella vocazione comunitaria che lo aveva visto nascere nel 1992 per volontà di un gruppo di «folli visionari» col nome di Portfolio in piazza. Incontri di fotografi e di fotografia, come ci racconta Mario Beltrambini. E lo fa ospitando, come da tradizione, le letture portfolio, in cui esperti provenienti dal mondo della fotografia, come Giovanna Calvenzi, Clément Saccomani e Francesco Zizola, visioneranno i lavori liberamente proposti; e confermando la centralità di piazza Borghesi, che accoglierà talk, incontri e mostre all’aperto, tra cui le “Icone parlanti” scelte dal direttore artistico Denis Curti, come quella dei magistrati Falcone e Borsellino – diventata simbolo della lotta alla mafia – scattata da Tony Gentile.
L’apertura delle porte del fondo fotografico del grande Marco Pesaresi, voluta dalla madre Isa Perazzini, è l’altra novità; così come l’ingresso gratuito per tutte le mostre e gli eventi. Chi conosce le foto di Marco sa che sono davvero un modo inedito di guardare il mondo, un vero e proprio progetto di recupero del rapporto col territorio, come non ha potuto essere per Marco quando ancora era vivo. Il suo sguardo profetico è il contrario esatto di un risucchio nel localismo.
Bei segni
Come del resto è stato un bel segno, a Rimini, l’utilizzo della grande piazza sulla Darsena per gli spettacoli dal vivo, con una geniale disposizione di tavolini fra le sedute, realizzati con dei semplici ma eleganti bancali di legno per favorire il distanziamento, arredati con ciuffi di piante marine.
O, ancora più pertinentemente, la recente Messa da Requiem di Giuseppe Verdi che il maestro Zubin Mehta ha voluto dedicare a Firenze ai medici e agli infermieri, eroi della lotta al Covid, inventandosi come sede del concerto all’aperto il tetto del Nuovo Teatro dell’Opera, mai utilizzato
prima.
Di necessità virtù, come si diceva un tempo? Di più, direi. Sono vere e proprie azioni di “resistenza culturale”. Meglio del vaccino.
Mi permetterete, a questo punto, una diversione che potrà sembrarvi eccentrica, ma che invece mi pare istruttiva per capire come la virtù di cui sopra denunci al tempo stesso l’ignavia precedente che richiede sempre nuove sentinelle.
Eccola. Voleva prendere il treno della tratta faentina, mia moglie, per andare al concerto di Zubin Mehta, quello che prende di solito, comodissimo, un salotto con aria condizionata, sopravvissuto alla distruzione delle tratte transappenniniche, che passa per Brisighella e Marradi fra panorami fantastici e arriva a Firenze in meno di due ore con poco più di 10 euro.
In biglietteria a Rimini le dicono no, non è più prenotabile, deve assolutamente passare per Bologna. Pazienza. Finalmente è sul binario, arriva il regionale, stipato come una scatola di sardine. Il capotreno non fischia la partenza perché è troppo pieno. Un po’ di passeggeri fugge cercando un passaggio sull’intercity al primo binario. «Tu scendi comunque a Faenza», le urlo. E puntualmente, a Faenza, è lo stesso bigliettaio che avverte: «Per Firenze coincidenza sul binario di fronte! Non si preoccupi del suo biglietto, Signora, salga». Meravigliosa dimensione periferica della lotta alla burocrazia, dove tutto ridiventa umano; e il buon senso ha la meglio sulla stupidità.
Ma la morale resta amara. Un concerto è vietato dentro un grande teatro per il giusto divieto di assembramento, ma non è vietato trovarsi stipati come sardine nel treno che si deve prendere per andarci, a quel concerto…
Ora finalmente è seduta, lo spazio è immenso, bellissimo. Il sovrintendente Alexander Pereira dà pubblicamente ragione, come di una conquista, di quel «inusitato» – oh meraviglia delle parole! – utilizzo del tetto. Ha ragione, il sovrintendente, lo è!
Una conquista destinata a diventare permanente, conclude Pereira, rendendo omaggio a una amica del teatro – la principessa Corsini –e a una giovane collaboratrice scomparsa pochi giorni prima a soli 35 anni, per un tumore fulminante al cervello. Lavorava silenziosamente senza risparmiarsi, risolvendo i problemi invece di complicarli, con competenza
e generosità, sorridendo sempre.
Quella conquista la si deve anche a lei. Il pubblico applaude a lungo. Si chiamava Mariangela Gabriele. Ma noi in famiglia la chiamavamo Pocahontas perché oltre che brava era bellissima. Era nostra nipote.