Da un po’ di giorni – no, da un po’ di anni, anzi diciamo pure da un po’ di decenni – mi frulla in testa la parola “servitore”. Mi intimidisce, mi irrita, mi attira, non so come prenderla. A sentire qualche Presidente della Repubblica fare l’elogio di un “fedele servitore dello Stato”, chiunque fosse , magistrato, poliziotto, giornalista, ucciso dalle Br o semplicemente morto d’infarto, mi assale una sensazione di disagio. Eppure, molti di questi “servitori fedeli” erano miei amici, come lo è stato Walter Tobagi. Ricordo bene le sue telefonate nel 1971, subito dopo aver pubblicato da Sugarco la Storia del Movimento studentesco e dei marxisti-leninisti in Italia, quelli di “Servire il Popolo”, appunto, roba di un secolo fa , quando si inneggiava : “lunga, lunga, lunga vita al compagno Aldo Brandirali”…
Due anni fa Brandirali venne per l’ennesima volta al Meeting a parlare su ” Il 68 e oltre: si può ancora parlare di servire il popolo?”. Io mi tenni rigorosamente alla larga. Quel punto interrogativo, davvero cruciale, non si poteva risolvere nella storia di una “conversione” personale di cui ero pur stato in qualche modo testimone oculare fin dai sui esordi. Nel 1991 avevo infatti pubblicato un suo libro Baghdad la Guerra e Oltre . Verso una Nuova Gerusalemme in viaggio fra politica e verità, scritto a quattro mani con un Roberto Formigoni non ancora Presidente della Regione, non ancora “deviato”. Le conversioni, come i miracoli, non si sbandierano in piazza. La storia dell’ Unione Marxista-Leninista “Servire il popolo”, il movimento fondato appunto da Brandirali e da Luca Meldolesi, è una storia inquietante di moralismi laici, di parodie liturgiche. Basti ricordare i matrimoni celebrati davanti alle bandiere rosse e la feroce intromissione del Partito nella morale privata degli iscritti, fino all’espulsione, se disattesa. Di quell’astratto rigorismo ideologico c’è poco da ridere. Per effetto di una rivoluzione culturale di stampo maoista, nella rete di quel tentativo onnipotente di sostituirsi a una Chiesa Cattolica e Romana versione Marcinkus (dunque meritevole di ogni recriminazione e condanna, come abbiamo poi visto e continuiamo a vedere oggi, bisogna pur dirlo) caddero molti futuri protagonisti della vita politica e culturale del nostro Paese. A futura memoria, solo per fare qualche nome : il regista Marco Bellocchio, l’attore Lou Castel, il sondaggista Renato Mannheimer, il cantautore Pierangelo Bertoli, lo scrittore Premio Strega Antonio Pennacchi, i giornalisti Fulvio Abbate , Antonio Polito – e , udite, udite! – Michele Santoro; il futuro Presidente della Commissione Difesa, Nicola Latorre; e ben due future Ministre, Barbara Pollastrini e Linda Lanzillotta. All’epoca, lo Stato (borghese) era per definizione “il Nemico”. Ma da quelle lontane radici rivoluzionarie maoiste fino ai più alti incarichi nelle Istituzioni democratiche, molti si sono convertiti in “fedeli servitori dello Stato”. Speriamo.
Poi, di male in peggio. Il rigetto delle nuove generazioni di ogni genere di servaggio ideale (tanto meno verso il popolo!) per ragioni puramente edonistiche (“della mia vita faccio quel c. che voglio”, “fatti furbo!”) fino a idolatrare il ruolo che i loro padri avevano avversato, quello del “padrone”; quel rifiuto che a fatica chiameremo “culturale” si conclude inevitabilmente col ritorno di una retorica tutta “di destra” del servitore dello Stato: quella del poliziotto salviniano, o perlomeno la sua parodia. Per tutte le altre Istituzioni statuali il problema sembra caso mai quello di contenere i casi di “infedeltà” nei limiti delle poche “mele marce” (in magistratura come fra i Prefetti, servitori dello Stato per eccellenza). Ma, incrinata la certezza, la frittata, cioè la destabilizzazione, la perdita di fiducia nella disinteressata fedeltà di chi opera nella e per la cosa pubblica, è drammaticamente fatta. Sarà durissima recuperare l’idea che le Istituzioni brulichino nient’altro che di ferventi e fedeli servitori …
Se questo lessico di derivazione politica (o politichese) mi lascia dunque addosso un irrisolto disagio, non così la stessa parola di derivazione biblica, il “servo di Dio”. Non il servo “protagonista” della Storia, non la classe operaia che deve prima abbattere “il Padrone” per sostituirsi ad esso, ma la figura del “Servo inutile”, centro di tutta la Scrittura.
Giuseppe Dossetti, guarda caso ex-politico di spicco nel panorama italiano, ha fatto di questa figura non solo il perno di tutta la sua straordinaria esegesi, ma quello di tutta la sua vita personale: da Padre Costituente (con De Nicola, Terracini e De Gasperi) fino al suo lunghissimo ritiro come monaco in Terra Santa. “Se siamo servi – scrive Dossetti – vuol dire che c’è un Padrone…non siamo noi i padroni della nostra vita…se infatti il senso della storia, il successo nella vita, l’armonia della convivenza umana dipendessero da noi saremmo proprio conciati male! Ma attenti: siamo “servi inutili”, cioè il padrone non ha bisogno di noi, delle nostre prestazioni“.
Ecco dunque la differenza fra il servitore dello Stato e il servitore di Dio: nel riconoscimento che un Padrone c’è, lui solo davvero onnipotente e padrone della Storia. Qualunque cosa noi facciamo! Solo così, forse, possono nascere amministratori della cosa pubblica saggi e illuminati come il Giuseppe biblico presso il Faraone ai tempi delle vacche magre. I governanti farebbero bene a rileggere Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann.