La breve e intensa esperienza contenuta in questo romanzo consegna al lettore un intreccio di emozioni che si dipanano nel corso della vicenda attraverso l’alternarsi delle voci dei protagonisti, presentati sempre nel binomio uomo-donna. La voce, si sa, è la risultante di un complicato processo interiore che giunge a pieno compimento solo quando è espresso, detto: solo allora un pensiero cessa di essere tale per trasformarsi in parola detta, pronunciata, a voce appunto. È nel punto d’intersezione tra queste due istanze che la scrittrice si cimenta nel raccontare della probabilità, nell’atmosfera rarefatta di un pensiero che si forma, dicendosi senza essere detto e ponendosi in un dialogo intenso con un altro io a cui far rima, in un crescendo di rimandi e di risposte a domande non poste. Così il lettore è condotto nel mondo dell’attesa, della probabilità.
Ho contato i giorni come solo un matematico sa fare. Li ho contati per sopravvivere al passare inesorabile del tempo, per abbandonare l’idea dell’attesa e consegnarmi piuttosto al numero dell’attesa.
Questo ci dice una delle voci del racconto ponendo il lettore di fronte ad uno dei grandi drammi del nostro tempo: l’attesa. Il momento della probabilità, del ventaglio di possibilità e impossibilità che si aprono di fronte all’essere umano e alla sua ansia di non vanificare la propria vita nell’attesa dell’improbabile. Condizione necessaria affinché si produca l’attesa è l’assenza, ed è da questo elemento che prende le mosse l’intera vicenda; i due personaggi dialogano e lo fanno attraverso i loro monologhi: nessuno può “sentire” quello che si dicono, forse nemmeno loro stessi. L’armonia di domanda e risposta si svolge su un piano che non è quello della parola materiale, ma dell’emozione, nel suo trasformarsi in pensiero espresso ma non detto. Non detto perché, fondamentalmente, non c’è un “io” materiale a cui rivolgersi e l’idea di questo “io” assente è ancor più sostanziale della sua stessa presenza fisica.
L’abilità della scrittrice consiste, appunto, nell’aver creato un “dialogo amoroso” che, a ben guardare, va ben oltre la tematica erotica, per trasformarsi in una disamina ontologica: non è l’amore a mediare le vite dei personaggi, a suggerire loro pensieri ed emozioni, bensì la loro stessa essenza di esseri umani, esseri capaci di amore.
Chi sono io? Chi sono?
Così si presentano i personaggi fin dalle prime righe ponendo il lettore di fronte ad una di quelle domande “fatali”, dalle quali i più fuggono, procrastinando una risposta in un futuro incerto quanto la durata di un arcobaleno. Se è vero che, per dirla con le parole di Montale: Non sappiamo quale sortiremo domani, se oscuro o lieto – bene è iniziare piuttosto a domandarci chi siamo, come i personaggi del racconto ci suggeriscono, per poi scoprirci essere solo probabilità, occasioni da sfruttare o lasciare per strada nel corso delle nostre esistenze.
All’attesa segue inesorabilmente l’incontro: è in quel momento che l’attesa di una vita può concretizzarsi nel dirsi, nel raccontarsi. Ma proprio allora la parola manca, tutto è affidato all’evanescenza di un sorriso, alla fugacità di uno sguardo dove l’essere è sovrastato dal carico emotivo del suo essere pensiero e non può far altro che tacere. In tal senso, allora, l’incontro si esaurisce ancora una volta nel silenzio, nel non detto. Ancora una volta è il campo delle possibilità del pensiero e dell’emozione a prendere il sopravvento sulla concretezza della parola espressa. Nessuno verrà mai a dirci se abbiamo assistito ad una pura fantasticheria, all’esercizio sfrenato delle passioni emozionali che non danno vita ad una storia d’amore concretamente vissuta. Di questo l’autrice tace e, tacendo, ci suggerisce forse di pensare alla inutilità di intendere la vita nelle sue manifestazioni concrete, materiali: la vera vita è sfuggente, mutevole, si manifesta come puro pensiero e la parte di vita attiva, che inesorabilmente ci caratterizza e ci classifica nel mondo, va ascritta alla sfera delle possibilità, a ciò che siamo stati, a ciò che saremo, a ciò che avremmo potuto essere.
Antonio Moraca