Poco meno di sette mesi sono passati dall’inizio di questa rubrica, nata per caso, in pieno lockdown, con un titolo che sottendeva una sfida: cultura contro coronavirus. Ed eccoci invece in piena seconda ondata di infodemia con le cronache dal fronte della terapia intensiva in cui combatte la sua battaglia un generale da poco nominato a capo della corazzata giornalistica della Fiat, un giornalista del valore di Massimo Giannini; con le conferenze stampa del premier che addirittura stoppano l’onnipotente Fazio; col bollettino dei morti che ha ripreso a sciorinare i suoi numeri: quanti da noi, meno che in Francia, urrah!, quanti se ne prevedono nelle prossime settimane, se non adottiamo misure drastiche e rigorose. Potrei esserci io stesso in quella lista, sono nella giusta fascia d’età, di qualcosa bisogna pur morire, chissà… Eppure.

Eppure c’è qualcosa che non mi torna, qualcosa che non convince in questa ossessione monotematica dei media sul Covid, in quest’orgia di tamponi e test per tamponare e testare il livello di panico che come un seme viene gettato dagli schermi televisivi a ogni ora del giorno e della notte e germoglia nelle nostre coscienze di cittadini coscienziosi, senza che neppure ce ne rendiamo conto, producendo ora il trenta ora il sessanta ora il cento di obbedienza alle norme e ai protocolli.

Non avevo bisogno dell’autorevole recente parere del sociologo De Kerkhove, allievo di Mac Luhan, che con troppo Covid sui media si alimenta artatamente il panico; non sarà per caso che pubblicai in anni non sospetti, nel 2007, un piccolo saggio di Giancarlo Manfredi sui  meccanismi complessi della comunicazione nelle emergenze, intitolato appunto Infodemia.

In questa confusa chiamata alle armi contro il nemico invisibile da parte degli Stati Maggiori dello Stato e della Tv, con gli elmetti di plastica già ammassati in trincea e 40 milioni di mascherine antigas (quelli che emettiamo noi!) prodotte in un mese e distribuite gratuitamente – unici in Europa! – nelle scuole ai nostri figli; senza considerare i 57 milioni di mascherine non a norma sequestrate in nove mesi dalla Guardia di finanza (incluse quelle della ex presidente leghista ante litteram della Camera, Irene Pivetti), noi rischiamo davvero di non riuscire più a riconoscerci e a distinguere verità e menzogna, non sappiamo più esattamente chi siamo e per chi siamo chiamati a combattere, se per i “furbetti delle mascherine”, o per la vita, certo, preziosissima in quanto tale, che comunque prima o poi dobbiamo restituire.

In tempi non lontanissimi la vita ci è stata richiesta ben più “gratuitamente” di ora, quando ci spedivano nelle camere a gas o sui fronti e nelle trincee, lì davvero senza distinzione di razza, religione e colore della pelle come ci raccontano le migliaia di croci dei cimiteri di guerra dei Gurka, gli indiani dai lunghi capelli, strappati a forza dalle loro montagne in Nepal per combattere nelle file della cinica Royal Army contro i cattivi tedeschi…

Per che cosa questo planetario sommovimento che non a caso il Papa chiama «la terza guerra mondiale»? Per i cinesi o quella parodia di dittatore nordamericano che sembra fuggito da una pellicola di Chaplin e si gode in anteprima i farmaci sperimentali che lo hanno miracolato? Per le aziende farmaceutiche che si arricchiranno ulteriormente con il vaccino che certamente arriverà, da produrre in miliardi di unità?

Siamo davvero confusi da questa infodemia, somigliamo al nonno di Amarcord che esce nella nebbia, si perde e si spaventa. «Mo se la morte è così… ’n’te cul!». Così come, Federico? Così banalmente prossima al cancello di casa? Così esotica come le corna del bue che fino a poco tempo fa arava i nostri campi e ora spuntano minacciose dalla nebbia delle nostre paure indotte? Fatico a ricacciare nell’ombra il negazionista inconscio che è in me e che riemerge dal torpore ipnotico indotto dai nuovi divi Tv, pneumologi-virologi-covidologi, moderne incarnazioni degli antichi membri della Confraternita della Buona Morte, tutti beninteso con il logo ben in vista sulla mascherina, “Trump for President”, nuovo straordinario medium pubblicitario che fra non molto le agenzie di comunicazione proporranno alle aziende più volentieri che FB.

Nuovi generi letterari denominati “Protocolli ” nascono e nuovi “professionisti ” della protezione, maschi o femmine, capello biondo sparnazzato e maliardo o barba grigia incolta, poco importa, insomma il genere che buca lo schermo oltre che le coscienze intimorite di noi poveri ottantenni, cuccagna e trionfo della mai sconfitta burocrazia.

I neo-gestori dei flussi, i propagandisti di banchi monoposto, i venditori di termoscanner ai parroci benedicenti la fronte dei fedeli, i prescrittori di test sierologici e tamponi anche presso il povero medico di base o il farmacista; tutti costoro assomigliano a quelle odiosissime cimici della puzza che invadono la privacy della nostra stanza da bagno e fraudolentemente si nascondono persino nelle maniche dell’accappatoio, pronte a spararti addosso le loro persistenti flatulenze, se ti permetti di indossarlo senza preventiva sanificazione. Insieme, stravincono 10 a zero contro il vecchio e ingenuo “buon senso”, figlio di quel Dio minore chiamato Cultura.

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