Comprato il giorno stesso dell’uscita, non riesco a staccarmi, vago come un ubriaco fra le quasi 700 pagine de I diari segreti di Giulio Andreotti (Solferino), rincorrendo di volta in volta una data, un nome, un fatto, un avvenimento che ricordo bene fra quelli riportati a titolo di antefatto all’inizio di ogni “annata”. Queste pagine – certamente selezionate fra le molte, moltissime di più, dai figli Serena e Stefano – coprono esattamente un decennio, quello che va dal primo Governo Cossiga nel 1979 alla caduta del muro di Berlino nel novembre 1989.

L’Italia nel sangue

Basterebbe scorrere questi riassuntini storici che fanno da indice alle annotazioni per rabbrividire. Solo per darvi un’idea. 1979: un paio di omicidi politici (Mino Pecorelli e Giorgio Ambrosoli), due governi a distanza di 5 mesi (Andreotti e Cossiga), Saddam Hussein diventa presidente dell’Iraq, in giro per il mondo tre o quattro colpi di stato. Nel 1980 i morti ammazzati noti salgono a 3 (Piersanti Mattarella, Vittorio Bachelet e Walter Tobagi), più 85 anonimi alla stazione di Bologna e altri 81 a bordo di un Dc9 diretto a Ustica. 1982: vengono assassinati Pio La Torre, il generale Dalla Chiesa con moglie e scorta, questa volta dalla mafia; Calvi è trovato impiccato a Londra sotto un ponte, a Genova viene arrestato Licio Gelli. 1984: strage sul treno a San Benedetto Val di Sambro; e muore Enrico Berlinguer. 1985: riecco le Br, viene ammazzato a Roma l’economista della Cisl Tarantelli; e Cossiga diventa presidente della Repubblica. 1986: Michele Sindona è assassinato in carcere con un caffè al cianuro. 1988 è la volta del senatore Ruffilli nella sua Forlì. Eccetera eccetera eccetera. Questo solo per ricordarci quale Italia si trovava a governare quell’icona della politica che nessuno è mai riuscito a decifrare realmente, a dispetto dei perfidi ritratti giornalistici e mediocrissimi film che lo facevano di volta in volta macchinatore di intrighi, il divo, belzebù, il gobbetto dispensatore di baci ai mafiosi.

Mea culpa

Anche io, da editore, ho fatto la mia parte. E ora, calato in queste pagine preziosissime che mi fanno provare per qualche ora la vertigine di cosa vuol dire tentare di governare un Paese come quello sopra descritto, ora, non lo riconosco.

Anzi non mi riconosco. L’autore che scandisce lo stesso decennio che io ho vissuto da oppositore politico, sospettando (non senza qualche ragione) che le stragi che hanno accompagnato quel decennio fossero “stragi di Stato ”, mi appare ora come un eroe che ha combattuto con pazienza e determinazione una dopo l’altra le mie stesse battaglie, goduto le sue vittorie, sopportato le sue sconfitte.

Un’idea di cultura

Eppure, nel bel mezzo di questo macello grondante sangue, si spalancano inaspettati sprazzi di luce. «Cultura vuol dire “coltivazione”, che significa attenta e metodica dedizione allo sviluppo, con la rimozione dei fattori ostativi e l’utilizzo di tutti i possibili elementi… fertilizzanti», annota il 28 ottobre. Neanche Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere aveva mai dato una definizione altrettanto “rivoluzionaria”.

Mi colpisce la sua capacità certosina di tessere pazientemente rapporti. Come sempre usa annotare: «Viene a studio Oriana Fallaci… », o Martelli, o Signorile, o Togliatti… a volte sono personaggi imprevedibili, spesso avversari politici. Al suo ruolo di attore ne Il tassinaro con Alberto Sordi dedica appena una riga. Ma il 10 dicembre 1982 in una intervista sul caso Calvi a Ezio Mauro («Non ha paura delle rivelazioni di Licio Gelli, quando finalmente parlerà?») Andreotti oltre che lapidario, è feroce: «In quasi 40 anni di vita politico-ministeriale non ho mai chiesto a un giornale un soffietto né ho mai protestato per un attacco. Non muterò certo costume dinanzi alle saccenti accuse di cinismo rivoltemi da un politologo alla moda… Il suddetto politologo però ha modo di informarsi della verità dei fatti senza uscire dalla sua casa editoriale dove non erano certo estranei personaggi più che competenti in proposito, che io ho avuto il privilegio di non conoscere. Anche l’indifferenza del cinico ha un limite». Grandioso! Comunque, gli credo.

L’incontro al Meeting

Ho avuto la fortuna di passare una mezz’ora a tu per tu con Giulio Andreotti in un salottino del Meeting in occasione di una delle sue ultime visite a Rimini, nel 2007 o nel 2009, non ricordo. Ricordo però di avergli chiesto scusa per averlo così maltrattato. Soprattutto con una brutta collana di satira politica di cui oggi mi vergogno. «Oggi sarei onorato di averla come autore» gli dissi. E mi parve si commuovesse. Aveva l’aria stanchissima.

Sarebbe morto di lì a qualche anno, dopo aver combattuto come un leone fino all’ultimo, contro la più infamante delle accuse montate ad arte contro di lui. Questi Diari sono forse solo la prima parte del suo testamento politico, da far leggere ai suoi nipotini inselvatichiti che siedono oggi in Parlamento.

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