So i rischi che corro a dire quello che sto per dire. Forse non ne era cosciente Laura Pausini che ha dovuto cancellare il suo post su Diego Armando Maradona: «Fa più notizia l’addio a un uomo sicuramente bravissimo a giocare al pallone, ma davvero poco apprezzabile per mille cose personali diventate pubbliche, piuttosto che l’addio a tante donne maltrattate, violentate, abusate».

Non è colpa di Diego, le ha risposto giustamente Fiorella Mannoia, non ha scelto lui di morire il giorno dedicato alla violenza sulle donne. Ma io invece se ne parlo non faccio che perseverare nell’errore visto che ho iniziato la mia carriera di editore nell’ottobre 1970 con un libro che si intitolava Il calcio come ideologia. Sport e alienazione nel mondo capitalista che già allora, quando internet non esisteva ancora, suscitò bordate di insulti e minacce. L’ho rieditato nel 2003, quel libro, con una nuova introduzione dell’autore Gerhard Vinnai (che oggi insegna Psicologia dello sport a Brema) e ci ho costruito attorno addirittura un convegno organizzato dalla Facoltà di Scienze giuridiche, economiche e manageriali dello sport dell’università di Teramo/Atri. Che qualcuno se ne sia ricordato nella marea di articoli, citazioni, aforismi, telecronache e di polemiche, appunto, di questi giorni sugli isterismi di massa che ci sono stati propinati da giornali e tv con una indecenza davvero scandalosa? Naturalmente no, ma non deve stupire questa amnesia di massa, questo vincente e planetario negazionismo della banale verità delle cose in tempi in cui il gioco del calcio si presenta non più solo come l’ultima “ideologia” sopravvissuta alla morte delle ideologie, ma si candida a essere l’unica “religione” planetaria.

Questa nuova religione di massa, ha finalmente un Dio, Maradona! Il Dio umano, secondo la geniale dedicatio dello scrittore uruguaiano Eduardo Galeano «porque era un dios sucio, pecador, el más humano de los dioses». Un messia, in senso stretto: se il calcio è il nuovo Dio, Maradona è il suo profeta, a tutte le latitudini religiose per cristiani, animisti, indu, ebrei e musulmani ormai annacquati e pronti all’apostasia. Doveva proprio morire Maradona, per essere riconosciuto come il profeta capace di mobilitare nei cinque continenti grandi masse pronte per la Guerra santa del riscatto dalla schiavitù del lavoro, scatenando mille jihad nei vicoli napoletani come nelle terrificanti periferie di San Paolo. Questa nuova religione apparentemente pauperista e popolana attendeva da tempo il suo messia e aveva già predisposto i suoi grandi templi del mondo unificato dal calcio: dal quasi preistorico Maracanà di Rio De Janeiro (con soli 83 mila posti) fino ai futuristici “big temples” delle nuove BR (religioni del pallone): il May Day Stadium a Pyangyang in Corea del Nord con 150mila posti a sedere (ma guarda!); e il Cape Town Stadium di Città del Capo, che cambia colore con effetti spettacolari (come il concittadino Elon Musk). Ma potremmo fare il giro del mondo, dal Gelora Bunk Karno Stadium di Jakarta (Indonesia), all’Azadi Stadium di Tehran (Iran); dal Guangdong Olympic Stadium di Guangzhou (Cina), al Monumental “U” di Lima (Perù); dallo Stadio Lužniki di Mosca (Russia), al Salt Lake Stadium di Calcutta (India), al Borg El Arab Stadium ad Alessandria d’Egitto, al Bukit Jalil National Stadium di Kuala Lumpur in Malesia, fino allo Stadio Azteca di Città del Messico. Senza dimenticare gli italianissimi San Paolo e San Siro, arcaici nomi di santi che presto verranno sostituiti. Tutti oggettini da 80/90 mila posti. Spettacolari e spettacolosi. Guardate le foto su internet.

Scusate la vertigine (e la noia) di questa lista (per dirla con Umberto Eco) ma è solo per darvi l’idea tangibile di che cosa ci sia a monte di tanta recente commozione. Quei veri e propri gioielli architettonici che portano le firme dei massimi architetti mondiali sono costati miliardi. Pagati da chi? A che fini, in mondi in cui spesso e volentieri si muore di fame e fuori degli stadi citati si combattono magari guerre reali e non rituali come sul campo verde.

E oggi? Quando un virus sempre più misteriosamente burlone sembra mettere a rischio la capacità di assembramenti così clamorosamente impensabili, cosa sarà di tutte le complesse liturgie del gioco fuori e dentro il campo, fuori e dentro le ovattate sedi dei club calcistici, fuori e dentro le grandi banche dove non si gioca affatto al fantacalcio, ma si fanno volare realissimi e fantasmagorici miliardi di dollari come branchi di storni sopra i maxi stadi. Cosa rimpiazzerà i cori che prendono allo stomaco, più potenti di mille canne d’organo nella più gigantesca cattedrale della Cristianità?

Povero Maradona! Cosa ti hanno fatto? Ti hanno usato, hanno usato le tue gambe di ferro capaci di dribblare anche San Pietro in Paradiso, la tua straordinaria bravura in campo te l’hanno rubata a furia di cocaina, il tuo sorriso ingenuo, la tua sete di donne da far invidia persino ai Zanza riminesi suscita solo tenerezza, povero «pube de oro» come osai chiamarti in un vecchio libro degli esordi. Dov’erano tutte le persone che dicevano di amarti, mentre tu morivi, Diego, non come un dio, ma come tutti, come un povero rudere umano. A soli sessant’anni faceva pena vederti, un nano gonfio e zampettante che si batte il cuore col pugno per dire a tutti: vi voglio bene.

Proprio la tua fragilità ti salva, Diego. Sì, è giusto ricambiare quel bene, abbracciarti idealmente come hanno fatto papa Francesco, Fidel Castro, Pelé, Chàvez e tanti scugnizzi napoletani. Ma accettare che ti mettano sugli altari dei grandi stadi, che facciano di te il santo profeta del calcio-mammona, no, questo non possiamo farlo. Anzi, vorremmo poter sussurrare a bassa voce che dietro tutto questo si sente un forte odore di zolfo.

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