Stiamo entrando nell’era 5G. I primi tam-tam di alcuni provider della quinta generazione hanno già iniziato a rullare. Annunciano l’era delle videochiamate con connessioni mille volte più veloci delle attuali, streaming istantaneo e altre diavolerie. A me le videochiamate non piacciono, sembrano parodie delle “antiche” trasmissioni televisive. Le avevo tanto immaginate, quando non c’erano, come quintessenza della fantascienza, una specie di teletrasporto in luoghi lontani. Oggi direi che la futura rete di compresenze fittizie, destinata a sostituire i contatti fisici per via del necessario distanziamento sociale, disegna uno scenario che mi inquieta. Come se tutto fosse stato previsto.

Ho avuto la fortuna di viaggiare molto e, se potessi ricominciare, viaggerei molto di più. Mi manca solo l’Oceania: ma grazie al cielo a Mompracem ci sono stato con Salgari e in Australia con i figli del Capitano Grant. Adesso che sono vecchio mi capita sempre più spesso di immaginare cosa stia succedendo in questo preciso istante nei luoghi dove sono stato. Non però come un ricordo statico, una foto ricordo, ma come la pianta che si è sviluppata da quel seme piantato nella memoria, fino a non riconoscerlo più.

Chi sta facendo colazione ora al ristorante del New Otani di Tokyo dove con gli amici che mi ospitavano contemplavo la meraviglia del piccolo giardino giapponese ai miei piedi? Chi sta danzando ora al Teatro Juarez di Guanajuato in Messico? Chi sta passeggiando ad Efeso sulla via di Meryem-Ana? Chi abita nell’incredibile appartamento di Romano Giachetti a New York, con quella parete vetrata a strapiombo su Manhattan che mi dava le vertigini? Il mio incontro a Ninive, in Iraq, con Tareq Aziz so già come va a finire… Ma il documentario che mi gira in testa non ha niente a che vedere con i reportage del pur bravo Alberto Angela, neppure se penso alla folclorica capanna dei saggi nel villaggio Dogon sotto la falesia di Banjagara in Mali, dov’ero andato per filmare le loro danze rituali; o alla piazza San Venceslao di Praga, la piazza del municipio, dove del tutto casualmente, nel febbraio 1990, mescolato alla folla, assistevo all’annuncio del ritiro dei carri armati sovietici.

La Fiera del libro di Francoforte ha da poco gestito una giornata di eventi in diretta, che avvenivano in fusi orari diversi, ma erano resi “presenti”, in contemporanea, alla stessa ora locale! Insomma, avete capito: è l’idea della contemporaneità che mi intriga e seduce: solo Dio può vedere contemporaneamente in cielo in terra, in ogni luogo e in ogni tempo. Ma la pretesa tecnologica di fare la stessa cosa in 5G è fuffa, ridicola.

Spingiamoci oltre: in questo stesso momento, proprio ora, qualcuno/a sta tirando le cuoia. Immaginatelo/a, sfracellato/a fra le lamiere della sua auto in autostrada, o con un coltello piantato nel petto; o per overdose in un parco.

È realtà, non finzione televisiva. Succede davvero in questo istante. Vi consolerà la videochiamata di vostro padre morente nel reparto Covid, se non potrete comunque tenergli la mano? E a cosa servirà poi vedere chi vi chiama se non capirete quel che dice?

Pensate davvero che la Torre di Babele sia un mito lontano? Google traduttore faticherà a farci comunicare anche solo nelle 230 lingue parlate in Europa, immaginatevi in Asia, a sole 5-6 ore di aereo, dove trovate 2mila delle 7mila lingue parlate nel mondo. I più lungimiranti fra di voi potrebbero decidere di far studiare l’hindi, l’urdu e il panjabi ai propri figli: sono parlate da quasi un miliardo di persone che eccellono in cultura digitale. Queste miriadi di lingue, di situazioni concrete, quotidiane, banali o violente, tragiche o comiche, vissute dai quasi 8 miliardi di umani che popolano il Pianeta, inconsapevoli gli uni degli altri, ebbene, questo brulicare di vita evapora nel cosmo come una nebbia autunnale, come un brusio, una vibrazione impercettibile, una preghiera collettiva.

Davvero il mondo non si esaurisce nel perimetro della nostra tribù (di Rimini o di New York poco importa), o in quella provinciale miseria che passa la tv di Stato; e neppure nel finto Bengodi del 5G.

Pullula, letteralmente, di culture fantasmagoricamente diverse che coesistono in perfetta contemporaneità, con riti e tradizioni secolari, anche se non le conosciamo. Si chiama biodiversità culturale. Il Papa ha recentemente benedetto il rito della messa zairese che mi era capitato di filmare trent’anni fa in un mio viaggio africano. Bei segni. Rivivrò l’emozione dell’antesignana Missa luba e delle danze attorno all’altare con lance e tamburi, ripensando ai curiali di allora che minacciavano scomuniche verso quello che chiamavano «sincretismo religioso». Stupidi, miopi curiali: non era certo quel roteare di lance che metteva a rischio il Cristianesimo, ma il roteare di miliardi in mano a Sindona; e oggi in mano ai padroni del 5G.

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