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Intervista di Antonio Gnoli a Renato Barilli

Renato Barilli. Ciò che più temo è che nessuno si ricordi di me

«Il fatto che lei sia qui a Bologna, in questo giorno di implacabile afa, davanti a me, mi pare un miracolo. Una visione. Forse un’ allucinazione».

Non so se Renato Barilli stia scherzando, in un pomeriggio di agosto in cui anche i grilli aspirerebbero a mettersi sotto il ventilatore, o sia serio e compunto. Propenderei per la prima ipotesi se non fosse per un curioso vittimismo che lo anima. Gli chiedo se soffre della sindrome di accerchiamento. Mi risponde con spiritosa prontezza che per accerchiare si richiederebbe la presenza concreta di un soggetto e lui da tempoè sparito dai radar. Puro ectoplasma, che però ha fatto in tempo a darci un libretto sul postmoderno (edito da Guaraldi):

«Non è l’ ennesima tirata filosofica sul debolismo»,

dice con vaga e sorniona cattiveria. E il pensiero corre a Gianni Vattimo. Se Barilli, critico d’ arte, quasi ottantenne, tra gli alfieri del Gruppo 63, fosse il nome di una strada, faremmo una certa fatica a trovarla. Ma una volta intercettata si vedrebbe un gran via vai di persone, un traffico di gente e cose che hanno sostato o l’ hanno semplicemente attraversata. Del resto, un paio d’ anni fa, uscì un suo ponderoso autoritratto (edito da Lupetti), ricco di episodi e di nomi e soprattutto attraversato da una certa paura di essere dimenticato. La chiamerei sindrome di abbandono. Davvero teme che nessuno la ricordi più, per quel che ha fatto e detto nel corso della sua vita?

«La paura c’ è ed è reale. Le faccio un esempio: sono tra coloro che hanno dato vita al Gruppo 63, ricorrono i cinquant’ anni della sua fondazione, non c’ è nessuno, dico nessuno, che ricordi che a quell’ avventura partecipai anch’ io. Mi sento come un paria. È la triste realtà».

La fa soffrire?

«Sì, e trovo sia un’ ingiustizia. Una forma di esclusione».

Si è dato una spiegazione?

«Ho provato. Pensai: sono antipatico? Vabbè, ma non più degli altri. Ho compiuto azioni riprovevoli? Non credo e comunque non tali da giustificare questo accanimento. Ho dato fastidio? Non mi sembra».

E allora?

«Un sospetto ce l’ ho. Credo che questo stato di cose dipenda molto dalla mia doppia natura. Da un lato esperto di arti visive, dall’ altro critico letterario. Sa cosa mi dicevano gli amici? Quelli che si occupavano d’ arte dicevano: Renato concentrati sulla letteratura che lì sei bravissimo; e i letterati invece mi invitavano a occuparmi d’ arte, sperticandosi in lodi».

Lei è un equivoco vivente.

«Non scherzi, la cosa mi fa soffrire».

Condannato all’ inesistenza.

«Non l’ auguro a nessuno. Fin da bambino agognavo la socievolezza».

Cosa ricorda dell’ infanzia?

«Pochissimo del fascismo, sono stato appena figlio della lupa e poi tutto si è dissolto. Invece ho ancora nella testa i rumori della guerra. Sperimentai tutti i tipi di bombardamento. Sento ancora il cupo ronzio delle fortezze volanti. Luccicavano in alto come enormi sardine d’ argento, emanando un suono simile ai quintali di ghiaia scaricati di colpo. Mi distraevo e proteggevo, leggendo».

Cosa?

«Salgari, innanzitutto. Le sue avventure erano più forti dell’ orrore della guerra. E poi, più grande, scoprii, Pascoli. Uno dei miei primi amori. Ma già eravamo negli anni Cinquanta».

Com’ era la vita a Bologna in quel periodo?

«Intensa, varia, prolifica. Mi iscrissi a ingegneria. Facoltà virile, maschia, impegnativa. Inadatta a un temperamento curioso e polivalente, come il mio. Mi venne in soccorso una meningite virale che fiaccò le mie difese intellettuali. Finii così a Lettere. E lì ho avuto la possibilità di conoscere e frequentare Luciano Anceschi».

Lo studioso di estetica?

«Proprio lui, allievo di Antonio Banfi, mentalmente più agile del suo maestro. La cosa importante che ho appreso è che una teoria più che imporre dogmi deve liberare da quelli esistenti. Fu splendido, anche se sfibrato dalla beghe accademiche. Peccato che soffrì di un invecchiamento precoce. A lui, in parte devo, le distanze che presi dal cosiddetto marxismo letterario».

Dalle posizioni espresse da Lukács?

«Che erano poi quelle difese dagli intellettuali comunisti. Posso vantarmi di aver sentito fin da subito un’ avversione per l’ “impegno”. È stato naturale in seguito dar vita al Gruppo 63. Lukács era la nostra bestia nera: il richiamo all’ ordine e l’ esaltazione delle classi popolari. Chi da noi se ne fece interprete stucchevole fu Vasco Pratolini».

Ma il vostro successo da cosa dipese?

«Dal bisogno di svecchiamento. Non se ne poteva più del bello stile toscaneggiante. Come neoavanguardia non abbiamo inventato nulla. Abbiamo solo esteso e democratizzato le invenzioni delle avanguardie storiche. Umberto Eco lo ha detto benissimo: siamo stati la “generazione di Nettuno”. Lavoravamo sott’ acqua, mentre i nostri padri nobili furono tellurici, esplosivi, dirompenti».

Chi sono stati i più talentuosi del gruppo?

«Avrei difficoltà a distinguere i più bravi. Sanguineti fu straordinario con il suo Capriccio italiano; Balestrini ha mostrato nel tempo una magnifica tenuta; i “Nuovissimi”, con la loro poesia, furono la punta di attacco; Eco è stato una specie di fratello maggiore. Fu il primo ad avvicinarsi all’ industria culturale a capirne i meccanismi e trovo determinante il contributo che diede con Opera aperta. Peccato che sia finito a scrivere romanzi».

Peccato perché?

«Li trovo dei divertissement. E quello che poteva anche essere una piacevole vacanza è diventata la sua occupazione principale». Non è un po’ invidioso?

«No, sono solo un piccolo intellettuale, petulante e intransigente».

Piccolo ma agguerrito e col tempo anche potente.

«Ho spesso rischiato il fallimento. Potevo restare il professorino di lettere di un istituto privato; potevo deprimermi dopo la figura miseranda che feci per un colloquio in vista di una borsa di studio per gli Stati Uniti; potrei dirle quanto ho sospirato prima di entrare stabilmente all’ Università. E solo dopo tutto questo che la fortuna ha cominciato a girare. Agli inizi degli anni Settanta, con l’ aiuto di Argan, fui messo in cattedra e subito dopo, morto Francesco Arcangeli, mi ritrovai alla testa dell’ Istituto bolognese di Storia dell’ Arte e, pur con fasi alterne, per un quarto di secolo vi ho svolto un ruolo intenso».

Quell’ istituto era il coagulo dell’ esperienza longhiana.

«Direi il luogo più sacro all’ eredità di Longhi. Di fronte al quale mi sentivo un miscredente. Voglio dire che ero, come quasi tutti, pronto a riconoscere in lui le qualità stilistiche dello scrittore, ma a deprecare il suo inveterato naturalismo che lo portava a disprezzare tutte, o quasi, le esperienze novecentesche».

Cosa pensa delle due grandi esperienze pittoriche del Novecento, almeno della prima metà, cioè De Chirico e Guttuso?

«Con Guttuso sono stato forse fin troppo duro nella condanna. Sebbene sia stato il capofila del rigurgito di naturalismo che si ammantava di falso progressismo, gli riconosco a posteriori un indubbio talento. Il caso di De Chirico è del tutto singolare. Pensavo, come tutti, che finiti gli anni Venti, non avesse più nulla da dire e che la sua occupazione fosse ormai quella di stendere dipinti orribili e di pessimo gusto».

E invece?

«Mi accorsi, negli anni Settanta, che quel suo ricopiare, o rifare, in modi volutamente eccessivi e caricaturali le sue opere famose del periodo metafisico, ma utilizzando colori caramellosi, insomma quel suo imperterrito “citare”, lo inseriva a pieno titolo nel postmoderno. De Chirico è stato l’ espressione di una “neg-avanguardia”, di un’ avanguardia con il segno meno che capovolge i valori progressisti, come succede in algebra. Ma nessuno si sognerebbe di condannare come reazionari i numeri negativi».

Ma quando un critico dà un giudizio e sente, col tempo, di averlo sbagliato che fa?

«Non lo so. Molti fan finta di niente. Io non ho paura di ricredermi».

Le è accaduto?

«Agli inizi degli anni Sessanta, quando andavo a Milano, frequentavo di tanto in tanto il Bar Giamaica e mi vedevo spesso con Piero Manzoni. A me non piacevano le cose che faceva. In quel momento stava consumando una fase non eccezionale, quella dei “monocromi bianchi”. Poi partii per Parigi dove stetti per più di un anno. Non ero accanto a lui quando ha fatto le sue opere davvero rivoluzionarie: la merda in scatola, il filo lungo all’ infinito e altro. Mi rammarico, ma ho rimediato sostenendo i suoi eredi: De Dominicis e Cattelan».

Accennava al suo periodo francese.

«Sono stato decisamente un francofono. Amico di Jean Dubuffet e di Alain Robbe-Grillet. Le sue teorie sul “Nouveau roman” furono una svolta. Non ho amato Roland Barthes, perso dietro il sogno allora alla moda della semiotica. E l’ arrivo di Michel Foucault e compagni mi ha turbato, non li ho capiti, trovandoli inutilmente ambiziosi. Ho considerato migliori i loro padri: Sartre e Merlau-Ponty».

Ma è vero che in Francia la chiamavano “Renet Barillet”?

«In realtà, questo sfottò è venuto dalla bocca di Giuseppe Guglielmi, fratello di Angelo, noto per le sue battute. I francesi non si sono troppo accorti del mio amore per loro, quello è l’ unico paese in cui non sono mai stato tradotto».

Riecco il tono lamentoso, la sindrome di accerchiamento.

«Magari mi accerchiassero, invece sento solo il silenzio attorno a me. Che è l’ arma più subdola. Non mi stroncano neppure, mi ignorano».

Non è che le fanno scontare le sue contaminazioni con il potere politico?

«Se allude a Craxi, ebbene vidi in lui un leader e una speranza per il Paese. Mi sbagliavo. Politicamente sono sempre stato un socialdemocratico. E per questo gli amici del Gruppo 63 mi sottoposero, già allora, a una specie di processo, dal quale uscii indenne. Sono stato per il Psi responsabile nazionale per le arti. Ho tentato di fare qualcosa in quella direzione anche se, lo devo ammettere, talvolta ne ho approfittato per proporre le mie mostre».

È anche pittore?

«Certo. Ho perfino frequentato da giovane l’ Accademia delle Belle Arti».

Non capisco se sia più egocentrico, masochista o equanime nel raccontarsi.

«Tenderei a essere equanime, talvolta ci riesco anche per una indubbia pulsione masochistica, tanto da riuscire a infliggermi le qualifiche più odiose. Ritengo di essere l’ autore che, nonostante una produzione di ormai sessant’ anni, viene più di frequente omesso. Con un pizzico di divertimento mi definisco ormai come un calviniano “critico inesistente”. Ma in fondo, lo ammetto, in tutto questo ci può anche essere una punta di vanità e di egocentrismo. Conosco bene l’ arte di giocare a rovescio, di capovolgere il tavolo. L’ ho appresa da Robbe-Grillet, del quale rimasi amico fino a quando non stroncai il suo cinema. Faceva film duri, legnosi, prefabbricati. Mi tolse il saluto. E fui cancellato dalle sue volontà testamentarie. Credo di aver rivestito un ruolo importante per lui. Ma nelle sue memorie non c’ è nessuna menzione, neppure marginale o di sfuggita. Nessuna traccia di me».

ANTONIO GNOLI

Il futuro del libro nell’era digitale

“Il libro di carta: una specie da salvare”? Così recitava un editoriale di Geminello Alvi di qualche anno fa su Repubblica. E così, ancora, periodicamente, si assiste al ricorrente concerto di lamentazioni sulle minacce di morte rivolte al caro vecchio libro cartaceo da parte di non meglio precisate nuove tecnologie sbrigativamente rubricate come “editoria on-line” o come “libro elettronico”; e sui rischi insiti, per l’opera dell’ingegno, nella cosiddetta “rivoluzione digitale”. Ora, se è vero che ogni rivoluzione si compie quando i tempi sono maturi o quando la misura del vecchio status è colma, sarà bene soffermarsi preliminarmente a considerare qual è – o qual’era – la condizione del libro prima dei dolori del travaglio che accompagnano il parto digitale in corso di svolgimento.

La “vecchia” economia del libro

Appassionato e non privo di qualche ragione, il peana originario di Alvi aveva in sé il virus di tutte le perorazioni nostalgiche. La libreria vi era descritta come “labirinto felice, conosciuto titolo per titolo e spiato nel suo accrescersi, scorrendo le copertine e meravigliandosi dei colori” e così via liricheggiando. Qualunque persona onesta sa che questo piccolo paradiso, che pure è esistito – superstite merceologico dei vecchi “bazar” in cui coesistevano i generi più disparati, in questo caso accomunati solo dal “dettaglio” della loro comune sostanza cartacea – questo supersite della compianta creatività individuale del gestore del bazar, il mitico “libraio” di una volta” – è purtroppo scomparso, o quasi, già da molti anni. Assassinato proprio dalla logica del mass-market. Non solo i best-seller si vendono ormai soprattutto negli iper-mercati con i megasconti permessi solo dai grandi numeri, lamentava l’illustre giornalista, ma – aggiungiamo noi – le librerie-bazar sono diventate a loro volta delle catene standardizzate di “punti-vendita” progettati in serie secondo le precise regole dei supermercati. Per l’esattezza 6 catene di librerie controllano ormai l’80% del mercato.

Forse non tutti sanno che…

Ora, come non tutti sanno, si producono in Italia oltre 60.000 titoli all’anno di cui almeno 36.000 novità che vorrebbero riversarsi in un circuito distributivo fatto di non più di 1.200 “punti vendita”: un ridicolo imbuto distributivo destinato a intasarsi fisiologicamente fino a generare questi fenomeni di travaso e allagamento paludare del ben più vasto circuito delle edicole cui abbiamo assistito negli anni scorsi. Solo una minima parte di questi 3.000 nuovi titoli al mese, oltre le ristampe, riesce ad entrare nel circuito distributivo, selezionata “a monte” dai distributori e dai gestori delle catene di librerie che regolano i flussi delle novità e delle rese dalle librerie come grandi “camere di compensazione” indifferenziate. I libri che riescono a giungere sui banchi della libreria sanno di avere una vita media di 20 giorni (statistiche ISTAT) subito scalzati dall’ondata successiva di novità che premono per entrare; dopo di che vengono inesorabilmente resi al distributore e da questi all’editore che li macera o li cede al 2% a una qualche organizzazione di remainder. La loro fortuna dipende totalmente dalla loro “velocità di rotazione”, cioè dalla resa economica dei centimetri o metri quadri di banco loro affidato. Se questa non è sufficientemente remunerativa, i libri muoiono come farfalle dopo una effimera apparizione, o peggio ancora rimangono “vermi” destinati ai circuiti del metà prezzo o al macero. Per questo i libri, per vendersi in fretta, abbisognano sempre più di grandi lanci mediatici, gli autori devono preliminarmente imporsi come “personaggi” e le tirature devono essere imponenti per “invadere” quanto più spazio espositivo possibile. L’editore, per stampare le sue 1.000, 5.000 o 100.000 copie del libro che “affida al mercato” in base alle sue congetture più o meno di marketing, sostiene “a monte” la totalità dei suoi costi, pagando la sua “redazione” (cioè il suo “specifico”), ma soprattutto tipografo, cartiera, legatore, distributore, promotore, libraio (cioè la filiera produttiva a monte e a valle della casa editrice, che solo raramente – come nel caso di Mondadori o Rizzoli – coincide con l’editore) indipendentemente dall’esito del suo “investimento”. L’autore è invece chiamato a partecipare al rischio d’impresa: se va bene riceve uno anticipo ma è remunerato a percentuale sul prezzo di copertina. I suoi guadagni, come quelli dell’editore, dipendono dal successo di vendita. Il prezzo di copertina deve dunque tener conto non solo della suddetta percentuale destinata all’autore, ma anche di una percentuale di copie che sicuramente risulteranno invendute per le logiche sopra descritte. Alla fine della sua performance commerciale il titolo lanciato sul mercato viene rispedito al mittente (distributore o editore). Ai tempi del “paradiso terrestre” di Alvi, la percentuale tecnica delle cosiddette “rese” invendute si aggirava attorno al 30%; poi la loro incidenza è andata sempre più aumentando fino a rasentare, oggi, e persino a superare in caso di flop, il 70%. delle copie prodotte. Scandaloso? Niente affatto, se l’editore ha fatto bene i suoi conti: se cioè ha stampato un milione di copie per poterne vendere trecentomila ad un prezzo capace di assorbire le 700.000 invendute oltre il copyright, il costo industriale, il costo distributivo, quello della libreria e un profitto adeguato! Dove sta il guaio? Semplicemente nel fatto che il costo dell’invenduto é interamente scaricato sulle spalle degli acquirenti residuali e che con questa logica vengono letteralmente “cacciati” dal mercato quei libri di contenuto culturale o scientifico che necessitano di tempi lunghi per poter trovare il proprio acquirente e in nessun caso potrebbero reggere tirature superiori alle nicchie culturali cui sono destinati. Non è un caso sette libri su dieci di contenuto “alto” abbiano in libreria la fatidica “vendita zero”. Le conseguenze di questo stato dell’arte della vecchia economia del libro sono dunque evidenti e possono così essere riassunte: l’editore che vuole “stare sul mercato” sarà costretto sempre di più a conformare il suo prodotto ai gusti della moda o ai best-seller d’importazione, con caratteristiche di basso profilo culturale, alte tirature potenziali accompagnate da imponenti lanci mediatici che a priori mettono in conto altissime percentuali di rese. La produzione di livello culturale medio-alto vede invece una sempre maggiore difficoltà ad entrare in libreria, un decremento delle tirature e una sostanziale difficoltà a trovare occasione di vendita nel breve periodo su quel circuito, da cui è precocemente espulso; e un prezzo di copertina quasi sempre più basso di quanto sarebbe strato necessario, considerati i risultati finali. Le risorse delle biblioteche – che un tempo rappresentavano il “cliente ottimale” per questo genere di libro di cultura – calano di anno in anno e tutta l’editoria di cultura ne risulta penalizzata.

La “nuova” economia del libro

Rispetto a questo quadro di vera e propria “irrazionalità” produttiva e distributiva del libro cartaceo, ma potremmo anche dire di fisiologica decadenza della vecchia filiera del libro, lo sviluppo di Internet abbinato alle tecniche di stampa digitale – anche a colori – di ultima generazione, che non starò qui a descrivere dettagliatamente perché ormai ben note anche al grande pubblico, ha innescato le premesse di una modalità produttiva e distributiva radicalmente diversa che si è articolata lungo due direttrici tecnologicamente distinte:
La prima direttrice prende il nome di POD, “Print-on-Demand”, una modalità di stampa digitale del libro “su richiesta”, anche “remota”, potendosi spedire il file ad una stampante che si trovi anche a grandissima distanza in un formato “bloccato” come il PDF (affinchè non si scompagini durante il trasporto in rete).
La seconda, di libro “liquido”: il file PDF perfettamente impaginato come se fosse sulla carta viene semplicemente “scaricato” sul computer di casa, sui palmari o addirittura sui telefonini (con l’handicap di una lettura più difficoltosa e stancante); oppure su E-books di ultima generazione, cioè dei “lettori” realizzati con inchiostro elettronico (brevetto Siemens), che simulano quasi perfettamente la lettura su carta, non essendo retroilluminati (abbisognano cioè di luce ambientale come i libri di carta…). Su questi possono potenzialmente essere “caricati” centinaia di titoli, divenendo piccole biblioteche portatili, più che libri sia pure elettronici. E inoltre possono essere collegati wirless con la libreria virtuale o con l’editore proprietario dei contenuti, da cui scaricare “on demand” i titoli desiderati.

Risurrezione del libro che fu

Una dozzina di anni fa, con Giuseppe Vitiello – allora funzionario e responsabile dei progetti editoriali al Consiglio d’Europa – conducemmo il primo vero esperimento di editoria digitale remota, stampando in contemporanea a Strasburgo, a Napoli e a Goteborg, un libretto inedito di Guido Conti, La piena, spedito per email in PDF dalla nostra redazione di Rimini. Come si vede, siamo dunque in presenza di una tripla rivoluzione della filiera del libro: produttiva e distributiva e addirittura di rinascita del libro tecnicamente già morto.
1. Produttiva, grazie alle nuove macchine di stampa digitali a toner invece che ad inchiostro, che abbattono drasticamente i tempi di stampa (computer to print), sempre più veloci e competitive rispetto ai mastodonti tipografici delle grandi macchine offset e delle rotative che richiedono alte tirature per ammortizzare adeguatamente i costi di avviamento.
2. Distributiva, perché il file immateriale di un libro può percorrere l’etere, in forma di bit, a costo zero, offrendo la premessa di una distribuzione planetaria che non ha più bisogno di “punti vendita”, di “scaffali”, di “velocità di rotazione”. Va subito notato che Internet aveva sin dagli esordi rappresentato la possibilità di “catturare” ordini attraverso la rete per poi spedire al richiedente il libro cartaceo, via posta ordinaria. Il caso più clamoroso di questo stadio che definirei “misto” fra digitale e cartaceo è rappresentato da AMAZON, la più grande libreria al mondo, in cui tuttavia all’enormità del fatturato ha sempre corrisposto una bassa redditività proprio a causa dei costosi problemi organizzativi di gestione del magazzino e di spedizione. (1) Ma non solo Amazon ha cavalcato questa opportunità di raccolta ordini via Internet: sono centinaia le librerie “virtuali” nate in rete e molte migliaia i siti di “commercio elettronico” gestiti direttamente dagli editori per la vendita dei propri titoli e con le stesso modalità “miste”.
3. Rinascita Internet rappresenta un immenso repository di files digitali che non hanno più le “scadenze” tipiche della vecchia economia cartacea (inclusa quella de deterioramento merceologico). I libri non sono più destinati a “morire” dopo la loro resa ai magazzini editoriali; sopravvivono persino dopo essere stati posti “fuori catalogo” dalle logiche fiscali e/o di magazzino degli editori che li avevano prodotti. Addirittura possono risuscitare, con una semplice operazione di scansione in OCR della copia cartacea stampata col piombo della composizione in Linotype: tecnologie da età della pietra che sono invece dell’altro ieri! A costo di apparire blasfemo, direi che Internet è una sorta di nuovo paradiso dei libri (come lo era, per Alvi, la cara, vecchia libreria ottocentesca!). Un paradiso che ospita e fa circolare le anime dei libri, il loro contenuto smaterializzato… In realtà, lasciando stare i santi, l’unica cosa che possiamo affermare con certezza, per il momento, è che le caratteristiche di quella che chiamiamo “nuova economia del libro” dipenderanno dalle modalità di coniugazione e di collegamento fra loro di tutti i tasselli della nuova filiera editoriale: la libera distribuzione planetaria in Internet, a costo zero, dei soli files digitali dei libri prodotti per la consultazione o la vendita dei files digitali; la loro eventuale stampa successiva, “on demand”, nel luogo stesso ove è generata la domanda; il loro utilizzo su devices in carta elettronica nella forma di E-books di ultima generazione (es. Kindle o iLiade). Ma soprattutto dipenderanno dalla soluzione del problema dei problemi: il diritto d’autore ( e di editore) sui contenuti immateriali circolanti.

La lunga marcia della rivoluzione digitale

Sarà interessante soffermarsi un attimo sulle tappe evolutive che hanno caratterizzato fin qui l’evolversi delle metodiche del Print on demand e l’affermarsi di sacche di sfruttamento economico legato alle nuove tecnologie digitali. Ne descriverei fondamentalmente tre:
– la cosiddetta “autoproduzione” (2) del libro, senza alcun filtro di mediazione editoriale o quasi (BookSurge, in America, Lulù in Europa e più recentemente Ilmiolibro.com del gruppo L’Espresso). Questa tappa si è basata esclusivamente sull’affermarsi delle nuove macchine da stampa digitale che consentivano l’economicità di piccole e piccolissime tirature, fino alla singola copia;
– la re-immissione sul mercato di testi esauriti o in via di esaurimento. Questa modalità si è basata sull’ipotesi di poter negoziare con gli editori i diritti di ristampa in microtiratura di parte del loro catalogo storico esaurito per farlo rivivere nel normale circuito distributivo;
– il PoD come “modalità di gestione del magazzino” da parte soprattutto di grandi editori di testi scientifici o universitari, alle prese con problemi di perdita di fatturato per code di vendita non evase su molti titoli. In questo caso la stampante digitale (di piccole dimensioni) entra direttamente in Casa editrice per gestire le richieste di ristampa in maniera più economica e mirata alle richieste del mercato.
Siamo ancora ben lontani da quello che da sempre ho definito come il “vero” Print on demand”, vale a dire:
a) la “pubblicazione” quotidiana su Internet di tutti i titoli prodotti dagli editori in versione digitale (magari sul sito della Agenzia nazionale per l’ISBN);
b) la raccolta centralizzata degli ordini da parte del mercato, composto indifferentemente da privati, da Librerie (3) e da Biblioteche e loro re-indirizzamento ai proprietari dei diritti;
c) la distinzione degli ordini nelle due specie del solo formato digitale per il downlod su E-book o su computer; e del Print on demand. In quest’ultimo caso il file digitale potrà essere stampato “quotidianamente” a cura dell’editore e spedito in cartaceo al cliente; oppure metadatato e inviato “ready to print” per la stampa remota all’altro capo della terra, risparmiando i costi di distribuzione fisica. Quest’ultima modalità è già stata timidamente testata da Amazon che aveva iniziato a crearsi sperimentalmente uno scaffale di file digitali pronti per la stampa remota. (4)

Fra il dire e il fare c’è di mezzo il copyright
In questo panorama di tumultuose e difficili scelte strategiche da parte dei colossi multinazionali si può dire solo che gli Editori sono stati complessivamente sulla difensiva, per non dire decisamente ostili alla rivoluzione digitale. Le ragioni sono di facile comprensione e sono ovviamente di natura economica. Gli editori temono – una volta che i loro files sono immessi in rete – di perdere il controllo sul “Diritto d’autore” (ma potremmo ormai chiamarlo “Diritto d’editore”) fin qui strettamente legato al prezzo di copertina imposto (per legge) del libro. Un file digitale “non protetto”, una volta in Internet è duplicabile all’infinito senza che si possa “inseguirlo” per esigere il pagamento di alcun copyright. Internet è per sua stessa natura il Paradiso della gratuità. Gli editori hanno fin qui inutilmente tentato di realizzare dei software di protezione del proprio copyright – il cosiddetto DRM Digital Ritghts Management, ovvero il controllo digitale dei diritti –, sia a livello dei files immessi in rete, sia soprattutto attraverso il tentativo di imporre al mercato degli hardware proprietari, gli E-book di prima generazione che imponevano propri standard di utilizzo (Microsoft Reader, ad esempio). e dunque un’unica fonte di approvvigionamento. Il fallimento di questa forma di ridurre il DRM a Digital Restriction Management è stato clamoroso: il lettore vuole sentirsi “libero” di acquistare i contenuti che desidera là dove li trova indipendentemente da chi li produce.

L’influenza di Google
Questo quadro si è ulteriormente complicato con l’affermazione del più straordinario motore di ricerca oggi disponibile in rete, Google, e soprattutto del suo progetto di “Ricerca Libri” che ha reso disponibile la ricerca non solo dell’informazione relativa all’esistenza del libro ricercato, ma addirittura “dentro il libro” (o almeno dentro parte di esso), per ormai molte migliaia di migliaia di titoli. Google era partito inizialmente con il risuscitare, scansionandoli, i libri ormai “fuori diritto” recuperati dal sistema bibliotecario; poi l’offerta è stata rivolta soprattutto ai piccoli e medi editori (o comunque agli editori lungimiranti), che non hanno tardato a capire che la loro capacità di vendita era proporzionale alla visibilità planetaria dei loro contenuti (equivalente del poter sfogliare il testo prima di comprarlo sul bancone virtuale di una libreria di dimensioni ciclopiche). È conseguentemente aumentata l’ostilità rabbiosa e in qualche caso guerreggiata dei grandi gruppi editoriali verso questa dimensione “liquida” dei contenuti librari, se possibile aumentata dalla disfatta subìta dai loro colleghi musicali con l’affermazione del formato MP3 e del peer to peer vissuto come pirateria diffusa.

Crisi in agguato
L’orientamento verso l’abolizione di ogni forma di Digital Restrictions Management da parte di larga fetta del mondo scientifico e di intellettuali di fascia culturale alta, ha tuttavia come contraltare l’esistenza oggettiva, sul mercato attuale della libreria, di un “credito occulto” di molti miliardi di dollari, rappresentato dai libri fatturati dagli editori alle librerie, ma ancora giacenti sui banconi e dunque invenduti! Se questa bolla di finta vendita scoppiasse all’improvviso sarebbe davvero peggio della crisi del ‘29 per l’editoria mondiale. Occorrerà dunque che la fase di passaggio dall’era analogica e cartacea dell’economia del libro a quella digitale e liquida sia gestita in modo che, senza ledere le logiche della concorrenza e del libero mercato, attraverso una serie di provvedimenti anche legislativi e di Governo oltre a una sorta di Costituente della Nuova economia del Libro, si evitino le conseguenze più traumatiche e catastrofiche. Personalmente non finirò mai di credere che non bisogna avere paura di queste “rivoluzioni” derivate dall’evoluzione tecnologica. Bisognerà al contrario cavalcarle con fiducia e ottimismo, nella certezza che, comunque, un libro resterà sempre un libro: codice, incunabolo, a stampa o digitale che sia. E la soluzione alla giusta remunerazione del lavoro intellettuale finirà per trovarsi più rapidamente di quanto forse non sospettiamo. Un libro non è la sua forma, ma il suo contenuto.

Scuola, terreno di scontro
È però il mondo della Scuola, credo, quello su cui si giocherà la partita strategica decisiva per il futuro del libro. E’ qui che si troverà, forse, la soluzione al problema del diritto d’autore nell’era digitale senza incappare nell’ira digitale delle nuove generazioni, magari su You-tube … Gli editori “di varia” fanno da anni inutili campagne a favore della lettura, ma sembra che nessuno si renda conto che l’odio per i libri da parte dei ragazzi nasce proprio da questo primo impatto con il libro in classe, che uccide spesso per sempre il gusto della lettura. Quello dei “libri scolastici” è in effetti uno scandalo rituale che si ripete inutile e immutato ogni anno: il loro costo, il loro peso negli zainetti, la pesantezza dei contenuti didattici, gli errori che contengono. Poi, tutto continua come prima. Oggi non solo il monopolio editoriale sui contenuti dei libri di testo ”gonfiati” ad arte va in rotta di collisione con la pretesa (e inesistente) autonomia didattica degli insegnanti, ma si scontra ormai violentemente con le potenzialità delle nuove tecnologie (e-learning, Learning Objects (5), print-on-demand). L’Antitrust non ha davvero tutti i torti nell’indagare le scelte opinabili degli editori scolastici stranamente concordi nel gestirsi e spartirsi l’unico mercato imposto che sopravvive all’economia di mercato… Secondo il testo ufficiale della Finanziaria 2009 “a partire dall’anno scolastico 2008-2009 (…) i competenti organi individuano preferibilmente i libri di testo disponibili, in tutto o in parte, nella rete internet“. E ancora: entro un triennio, i libri scolastici saranno “prodotti nelle versioni a stampa, on line scaricabile da internet, e mista“. Dunque anche solo online! Ma la norma potenzialmente rivoluzionaria, nel testo del decreto recita: “A partire dall’anno scolastico 2011-2012, il collegio dei docenti adotta esclusivamente libri utilizzabili nelle versioni on line scaricabili da internet o mista. Ma quale insegnante, si grida, oserà cimentarsi con la propria autentica “autonomia didattica” scrivendosi il “suo” libro di testo? O scaricandolo da Internet, un capitolo da Zanichelli uno da Mondadori e uno da De Agostani, per farsi la propria personale compilation ? E’ più facile e comodo nascondersi dietro le centinaia e non sempre utili pagine di qualche onnipotente manuale… Dalla “truffa culturale” dell’adozione (6) tradizionale alla sperimentazione dei nuovi Learning Objects fino all’ipotesi del libro di testo personalizzato scaricabile da Internet, voluto dalla Gelmini e da Tremonti, lo scenario è davvero tutto in sommovimento. Il termine “truffa culturale” potrà sembrare eccessivo a qualcuno, ma va inteso nel senso storico: le tradizionali “adozioni scolastiche” così come i dettàmi ministeriali che regolano i contenuti dei libri scolastici, sono una invenzione e un retaggio del Fascismo che vigilava e indirizzava ideologicamente i percorsi formativi (7). E’ solo alla luce di ormai antichi bengala, che la battaglia del caro-prezzi e il futuro del libro di testo via internet o in forma di e-books, mostra i suoi veri connotati. Non è banalmente un problema tecnologico, e neppure di soli interessi economici in gioco. E’ un problema di vera emergenza educativa in un Paese dove gli insegnanti sono sempre più impastoiati da migliaia di ragnatele dispositive centralizzate e dove gli studenti hanno spesso adottato la Scuola come campo di addestramento alla guerriglia per l’arrembaggio ai veri “valori” propugnati dai network televisivi, le sole Agenzie formative che contano davvero: la ricchezza subito e a qualunque prezzo, il successo, il sesso. La Scuola è una macchina con il motore in panne, ha recentemente dichiarato il Ministro della Pubblica Istruzione, non serve metterle dentro benzina, e non serve neppure contenere i prezzi di quelle cinghie di trasmissione del sapere che sono i libri di testo. Occorre renderla adeguata alla realtà del futuro dei giovani che la frequentano. Il dilagare delle chat on-line, l’abuso di You-tube e di MyFace, l’impressionante monte ore impiegate dai ragazzi per comunicare in gergo fra di loro, con faccine e abbreviazioni da servizi segreti in guerra contro lo Stato delle Cose, contro lo status quo, fa da clamoroso contraltare alla mancata informatizzazione delle strutture scolastiche (8). Forse, e non è una provocazione, basterebbe semplicemente abolire (9) o almeno non rendere obbligatorio, il vecchio manuale scolastico, per vedere riprendere il battito cardiaco e il respiro educativo della scuola, come dopo la scarica di un defibrillatore…

Mario Guaraldi

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Note
(1) M. Guaraldi “Fa impressione vedere una profezia realizzata”
Ai tempi del citato articolo su Repubblica da cui abbiamo preso le mosse, questa era ancora un’utopia: tutt’al più una profezia. Oggi è una realtà praticata addirittura da moltissime aziende editoriali, e dalla stessa Amazon, la più grande libreria online esistente al mondo. Il cliente neppure si avvede di aver ordinato un libro “inesistente” che verrà stampato nel luogo più vicino a quello di chi lo ha ordinato, Buenos Aires o Sidney, poco importa.
(2) Il mercato è ormai davvero globale; e i siti che praticano il self-publishing sono ormai svariate centinaia nel mondo e svariate decine in Italia, del calibro di Lulu o del più recente Ilmiolibro.com del Gruppo l’Espresso.
(3) Sarà la morte della libreria? Certo che no. Certo, le librerie dovranno trasformarsi, ma credo al contrario che le potranno ricominciare a vivere proprio grazie al Print-on-demand: recuperando la totalità delle attuali richieste “non disponibili” con delle postazioni internet a disposizione della clientela. I clienti cercheranno sul sito dell’editore e sui nuovi portali distributivi che certamente nasceranno ciò che a loro interessa, l’ordineranno, pagheranno alla cassa e riceveranno a casa il libro ordinato e stampato a richiesta per loro. Magari col logo della libreria sul retro della copertina.
(4) L’esperimento sembra poi essere stato interrotto dall’affacciarsi sul mercato del brevetto Siemens della carta e dell’inchiostro elettronico e dal recentissimo successo di Kindle, l’E-book commercializzato appunto dalla stessa Amazon come potenziale “terminale” della Libreria in mano al cliente.
(5) Abbiamo realizzato dei L.O. sulla metafora a partire dai fumetti, affrontato il tema della grande letteratura a partire dalla sintetica comunicazione SMS, spiegato la luna a partire dagli oroscopi e la fisica parlando di musica, testo, suono, immagini in movimento, vocabolario online, collegamenti in rete sono i nuovi “ingredienti” dei futuri libri scolastici..
(6) cfr. Monica Galfré, Il regime degli editori, Laterza 2005
(7) L’operazione che “viene definita con termine gentile ‘adozioni’ – si adotta un libro come un orfano e lo si stringe al proprio cuore di professore – continua ad essere perpetrata ogni anno” come una drammatica farsa. Ma attenzione, i libri di testo non sono mai “ingenui”, diventano piuttosto “l.d.t” droga psichedelica apparentemente de-ideologizzata, da mettere al bando…
(8) Uso delle nuove tecnologie tra i 14-19enni secondo le Fonti: AIE, Iard, Idest, Istat, Osservatorio permanente dei contenuti digitali: – Usano il pc sul luogo di studio: 59,7%
– Usano il pc a casa: 90,1%
– Si collegano a Internet da scuola: 52,0% ma il 15,0% almeno una volta la settimana, e il 31,0% meno di frequente; solo il 3,0% “tutti i giorni”
– Si collegano a Internet da casa: 80,6% (il 64,0% tutti i giorni)
– Partecipa a blog tutti i giorni o quasi il 21,0% dei 14-19enni.
– Accede a siti di condivisione di contenuti (You Tude, MySpace, Flicker): il 13,0%i
– Usa sistemi di messaggistica istantanea (Messenger o Skype): il 46,0%. – Usano sistemi di file sharing: 26,0%.
– Usano motori di ricerca per trovare informazioni relative a libri, musica cinema: 77,0%.
– Il 62,0% consulta enciclopedie o dizionari on line.
– Il 29,0% ricerca e scarica da Internet documenti e materiali informativi prima di fare un viaggio (cartine, informazioni sulla città o il Paese, alberghi, ecc.).
(9) E’ il 1972. Un giovane ma già noto “Professore”, Umberto Eco, firma assieme ad una sua allieva un libro dal titolo misterioso, I Pampini bugiardi, subito chiarito, però, da un sottotitolo programmatico: “Indagine sui libri al disopra di ogni sospetto: i testi delle scuole elementari”. L’introduzione di Eco è di quelle senza mezzi termini: “I libri di testo dicono delle bugie, educano il ragazzo ad una falsa realtà…” e parla di una “lotta contro i libri di testo” che dovrebbe porsi “al di là di ogni scelta ideologica” benché sia evidente che essi rappresentano “lo strumento più adeguato di una società autoritaria e repressiva tesa a formare sudditi, folla solitaria, integrati di ogni categoria…”E sorprendentemente conclude: “La linea pedagogica più sensata … è che non ci siano più libri di testo…” fornendo a bambini e insegnanti biblioteche scolastiche talmente ricche e una tale disponibilità alla realtà che l’acquisizione di nozioni veramente utili avvenga attraverso una libera esplorazione del mondo, la lettura dei giornali, dei libri d’avventure, degli stessi fumetti, dei manifesti pubblicitari…”. Altro che “pampini, convolvoli, ranuncoli, refoli di vento, casette piccine, pimpinelle, vomeri, madie e cuccume”, e tutti i rimasugli dell’universo linguistico dannunziano e pre-industriale…

Cosa vuol dire fare l’editore

Mi diverto spesso a chiedere ai ragazzi cosa vuol dire fare l’editore e ogni volta scopro con rinnovato stupore come sia difficile cogliere l’essenza di questo strano “mestiere”: “l’editore è quello che scrive i libri (no! quello è l’autore), l’editore è quello che li stampa (no! quello è lo stampatore), è quello che li vende (no! quello è il libraio), allora li distribuisce (no! è il distributore)”.
Allora, cos’è un editore?
Mi perdonerete se la prendo un po’ alla lontana.
Alessandro Manzoni quando cominciò a pubblicare i suoi “Promessi sposi” continuava a correggere il suo testo man mano che i fogli andavano in stampa.
La stampa era fatta foglio per foglio e chi ha qualche esperienza da bibliofilo sa che non esistono quasi due edizioni dei Promessi sposi che siano identiche una all’altra, proprio perché il lavoro di scrittura, come giustamente sostiene Guido Conti, è una continua riscrittura del testo e questo “interagiva” con la tecnologia che allora veniva usata. La macchina tipografica era infatti una macchina lentissima, in cui i fogli passavano sotto un rullo che li comprimeva sulla composizione della pagina fatta con caratteri mobili, di legno o di ferro, messi in fila uno ad uno e “sporcati” di inchiostro; il foglio stampato veniva poi piegato in quinterni e finalmente rilegato. Mentre si stampava un foglio Manzoni faceva a tempo ad apportare correzioni alla composizione della pagina successiva!
Poi sono arrivate la linotype, delle macchine compositrici che erano come delle gigantesche macchine da scrivere collegate a un forno dove veniva fuso il piombo che formava una riga intera di testo; poi è nato l’offset e la rotativa : le macchine erano gigantesche ma macinavano migliaio di copie in pochissimo tempo ( i testi venivano incisi su un cilindro, che ruotava velocissimo); poi finalmente è arrivato il computer, il famoso desk-top-publishing. E questa è praticamente l’ultima innovazione tecnologica che ha rivoluzionato il modo di fare editoria.
Ma il computer è arrivato pochissimo tempo fa ed è fondamentale capire che la rivoluzione che ha apportato è ancora in atto. Siamo ancora, potremmo dire, nella fase del travaglio. E il “bambino” che nascerà da questo parto si intravede appena.
A proposito del titolo di questo incontro, un po’ apodittico, “Internet: necessità o amore” io mi permetterei di dire che è una situazione di fatto, come una nascita appunto, come un bambino che nasce. Certo, è frutto in qualche modo anche d’amore, nel senso che qualcuno ha progettato queste grandi trasformazioni epocali, pensate a Bill Gates che era un ragazzo della vostra età pochi anni fa, ma con una genialità straordinaria, che ha innescato un meccanismo straordinario di cambiamento della realtà. Noi siamo ancora dentro questo cambiamento che non è terminato. L’editoria è esattamente dentro questa fase di travaglio, di cambiamento quotidiano.
Una seconda annotazione.
Noi abbiamo appena costituito l’Europa; è vero che la Svizzera è in una situazione particolare ma voi percepite molto bene che c’è un processo di metamorfosi politico-culturale straordinario. Noi abbiamo sempre fantasticato sul fatto che la Svizzera parlava contemporaneamente quattro lingue ed era per noi un fatto affascinante … Ebbene, sapete quante lingue parla l’Europa? Ottantaquattro. L’Europa è una realtà politica e geografica che parla 84 lingue! Bisognerà limitarle, ridurle? Neanche per idea. La lingua è una ricchezza della cultura. Questa abitudine a pensare l’Europa come una realtà multilingue è una cosa recentissima perché fino a poco tempo fa i nostri ragazzi crescevano convinti che al mondo si parlasse solamente la lingua, se non addirittura il dialetto, che si parlava a casa loro. Internet, di colpo, ha svelato questa diversa realtà; di colpo attraverso Internet posso accedere alle biblioteche slovene, cecene, slovacche, ceche, scoprire che esistono dei paesi del Nord che non avevo mai sentito nominare, la Lituania, la Lettonia, l’Estonia, cose fantastiche. Occorre dire noi abbiamo avuto anche un dramma storico che si è chiamato “cortina di ferro”, cioè la spaccatura del mondo in due grandi aree Questo ha creato non solo una spaccatura politica ma anche una spaccatura culturale; una parte delle culture che si sviluppavano di qua del muro non passavano dall’altra parte. Un’intera realtà ci è stata preclusa e grandi culture sono rimaste del tutto sconosciute. Internet e la nuova modalità di diffusione in tempo reale di culture, di lingue, di contenuti è diventato di colpo una specie di lente d’ingrandimento su ciò che ci era sconosciuto e produce delle modificazioni “culturali” di cui ancora noi non percepiamo le conseguenze.
Faccio ancora un altro esempio. Fino a ieri, per fare un libro, un editore doveva investire molto denaro, perché bisognava pagare il tipografo, il cartaio, il fotolitista, il legatore, dopodiché – dopo avere speso in anticipo tutto questo denaro – quel libro bisognava in pure distribuirlo; e la distribuzione era fatta di persone fisiche, di strutture organizzative, di depositi regionali, una rete estremamente complessa di commercio. Distribuire un libro non era molto diverso dal distribuire un pacco di spaghetti. Ma la differenza fra il libro e lo spaghetto è che il libro è sempre diverso uno dall’altro, un autore è diverso dall’altro, un lettore diverso dall’altro, mentre gli spaghetti sono sempre uguali! Tutto molto complicato!
Pensate ora a cosa succede nell’era di Internet.
L’editore finalmente considera il contenuto del suo libro come una cosa distinta dalla sua forma fisica, dalla sua forma merceologica. Il libro non è più quella cosa fatta di carta rilegata che uno trova in quel negozio che si chiama libreria. È fondamentalmente un contenuto immateriale. Il libro di Guido Conti è prima di tutto un contenuto immateriale: è nato nella testa del suo autore, si è trasferito nel suo computer e di lì prende tutte le forme possibili e immaginabili. Questo è quello che sta succedendo nell’editoria. Il libro è diventato un contenuto immateriale che può essere divulgato e diffuso via Internet, che può essere recepito, scaricato, stampato ovunque nel mondo, in tempo reale, a costo zero. L’editore, pertanto, può permettersi di pubblicare il libro in qualunque lingua perché non è più rilevante il contesto commerciale, la rete distributiva. Qualunque libraio del futuro, in teoria, potrà scaricare da Internet il libro che interessa il suo cliente, in qualunque lingua; lo stesso potrà fare il bibliotecario ovunque si trovi stampando ad Istambul, con le tecnologie della stampa digitale, una cinquecentina acquistata dalla Biblioteca di Lione. Questo è quello che si chiama distant publishing e print on demand. Io stampo su richiesta , a costi molto bassi, il file che mi interessa, prelevandolo da quella specie di serbatoio gigantesco che è Internet.
E importante capire che il file immateriale che viene distribuito attraverso Internet comprende esclusivamente la fase “tipica” del lavoro editoriale, senza più confusioni con tutti gli altri anelli della filiera tradizionale (il tipografo, ecc) : possiamo dunque finalmente rispondere alla domanda iniziale!
Il lavoro editoriale è quello che si esprime in un progetto comune dell’autore che ha scritto quel testo e dell’editore che lo ha scelto – individuandone le qualità – e pubblicato, cioè “reso pubblico”, diffondendolo. Il libro, diceva Escarpit è la sua diffusione. E oggi la sua diffusione è potenzialmente una diffusione su scala mondiale.
Innestando questo meccanismo a livello scolastico e a livello didattico, come abbiamo sperimentato con Guido Conti e la sua classe di studenti, abbiamo finalmente reso “visibile” il lavoro editoriale: una normalissima classe di ragazzi ha sperimentato dall’interno cosa vuol dire lavoro creativo, si sono addestrati a leggersi e a rileggersi, a scrivere e a riscrivere; e finalmente ha pubblicato il suo libro e lo ha diffuso fra tutti gli interessati, che in questo caso coincidevano in gran parte con gli stessi autori e i loro amici; ma l’esemplificazione, la modalità del fare editoria ha assunto un valore culturale enorme, un valore didattico straordinario e persino ha consentito l’innesco di un meccanismo economico sufficiente a rendere pagato il lavoro dell’editore perché quelle 100 copie vendute erano sufficienti, e il risultato economico, in microscala, poteva ritenersi soddisfacente. Ma soprattutto, il file – cioè il contenuto immateriale di quel lavoro didattico – è oggi in rete e teoricamente leggibile da migliaia di altri ragazzi.

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