Autore: Mario Guaraldi (Pagina 2 di 29)

Babele, Odissea nel 5G

Stiamo entrando nell’era 5G. I primi tam-tam di alcuni provider della quinta generazione hanno già iniziato a rullare. Annunciano l’era delle videochiamate con connessioni mille volte più veloci delle attuali, streaming istantaneo e altre diavolerie. A me le videochiamate non piacciono, sembrano parodie delle “antiche” trasmissioni televisive. Le avevo tanto immaginate, quando non c’erano, come quintessenza della fantascienza, una specie di teletrasporto in luoghi lontani. Oggi direi che la futura rete di compresenze fittizie, destinata a sostituire i contatti fisici per via del necessario distanziamento sociale, disegna uno scenario che mi inquieta. Come se tutto fosse stato previsto.

Ho avuto la fortuna di viaggiare molto e, se potessi ricominciare, viaggerei molto di più. Mi manca solo l’Oceania: ma grazie al cielo a Mompracem ci sono stato con Salgari e in Australia con i figli del Capitano Grant. Adesso che sono vecchio mi capita sempre più spesso di immaginare cosa stia succedendo in questo preciso istante nei luoghi dove sono stato. Non però come un ricordo statico, una foto ricordo, ma come la pianta che si è sviluppata da quel seme piantato nella memoria, fino a non riconoscerlo più.

Chi sta facendo colazione ora al ristorante del New Otani di Tokyo dove con gli amici che mi ospitavano contemplavo la meraviglia del piccolo giardino giapponese ai miei piedi? Chi sta danzando ora al Teatro Juarez di Guanajuato in Messico? Chi sta passeggiando ad Efeso sulla via di Meryem-Ana? Chi abita nell’incredibile appartamento di Romano Giachetti a New York, con quella parete vetrata a strapiombo su Manhattan che mi dava le vertigini? Il mio incontro a Ninive, in Iraq, con Tareq Aziz so già come va a finire… Ma il documentario che mi gira in testa non ha niente a che vedere con i reportage del pur bravo Alberto Angela, neppure se penso alla folclorica capanna dei saggi nel villaggio Dogon sotto la falesia di Banjagara in Mali, dov’ero andato per filmare le loro danze rituali; o alla piazza San Venceslao di Praga, la piazza del municipio, dove del tutto casualmente, nel febbraio 1990, mescolato alla folla, assistevo all’annuncio del ritiro dei carri armati sovietici.

La Fiera del libro di Francoforte ha da poco gestito una giornata di eventi in diretta, che avvenivano in fusi orari diversi, ma erano resi “presenti”, in contemporanea, alla stessa ora locale! Insomma, avete capito: è l’idea della contemporaneità che mi intriga e seduce: solo Dio può vedere contemporaneamente in cielo in terra, in ogni luogo e in ogni tempo. Ma la pretesa tecnologica di fare la stessa cosa in 5G è fuffa, ridicola.

Spingiamoci oltre: in questo stesso momento, proprio ora, qualcuno/a sta tirando le cuoia. Immaginatelo/a, sfracellato/a fra le lamiere della sua auto in autostrada, o con un coltello piantato nel petto; o per overdose in un parco.

È realtà, non finzione televisiva. Succede davvero in questo istante. Vi consolerà la videochiamata di vostro padre morente nel reparto Covid, se non potrete comunque tenergli la mano? E a cosa servirà poi vedere chi vi chiama se non capirete quel che dice?

Pensate davvero che la Torre di Babele sia un mito lontano? Google traduttore faticherà a farci comunicare anche solo nelle 230 lingue parlate in Europa, immaginatevi in Asia, a sole 5-6 ore di aereo, dove trovate 2mila delle 7mila lingue parlate nel mondo. I più lungimiranti fra di voi potrebbero decidere di far studiare l’hindi, l’urdu e il panjabi ai propri figli: sono parlate da quasi un miliardo di persone che eccellono in cultura digitale. Queste miriadi di lingue, di situazioni concrete, quotidiane, banali o violente, tragiche o comiche, vissute dai quasi 8 miliardi di umani che popolano il Pianeta, inconsapevoli gli uni degli altri, ebbene, questo brulicare di vita evapora nel cosmo come una nebbia autunnale, come un brusio, una vibrazione impercettibile, una preghiera collettiva.

Davvero il mondo non si esaurisce nel perimetro della nostra tribù (di Rimini o di New York poco importa), o in quella provinciale miseria che passa la tv di Stato; e neppure nel finto Bengodi del 5G.

Pullula, letteralmente, di culture fantasmagoricamente diverse che coesistono in perfetta contemporaneità, con riti e tradizioni secolari, anche se non le conosciamo. Si chiama biodiversità culturale. Il Papa ha recentemente benedetto il rito della messa zairese che mi era capitato di filmare trent’anni fa in un mio viaggio africano. Bei segni. Rivivrò l’emozione dell’antesignana Missa luba e delle danze attorno all’altare con lance e tamburi, ripensando ai curiali di allora che minacciavano scomuniche verso quello che chiamavano «sincretismo religioso». Stupidi, miopi curiali: non era certo quel roteare di lance che metteva a rischio il Cristianesimo, ma il roteare di miliardi in mano a Sindona; e oggi in mano ai padroni del 5G.

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Letterina di Natale

Spero di non scandalizzare nessuno scrivendo – a proposito delle norme che regoleranno le prossime festività natalizie – che ho ricavato l’impressione che le destre piangano di più la morte di Babbo Natale che quella delle migliaia di persone “comuni” che morirebbero se quelle restrizioni non ci fossero. Quasi avessero letto il nuovo Dpcm del premier Conte come il necrologio di un modello economico planetario identificato con Babbo Natale. Niente cenoni, niente gite in montagna, acquisti morigerati, cuore contrito e portafogli a riposo (un bel tesoretto di risparmi non ancora spesi…).

Ma le notizie sono confuse e contraddittorie, non è certo che Babbo Natale sia davvero morto, forse è solo ferito. E questa incertezza suscita in noi sentimenti ambivalenti, peana, autocritica ed esultanza. Persino ilarità. Riguardando in tv lo spelacchiato albero di Natale al Rockfeller Center di New York che tutti avevano deriso, tanto era misero e cadente e che oggi appare così sovraccarico di palle colorate da diventare il simbolo supremo del trumpismo – cioè di come si possa nascondere la realtà con milioni di fake news, “palle”, appunto –, viene da sogghignare. Anche noi a Rimini sembra che abbiamo voluto consolare i nostri concittadini dei mancati cenoni natalizi accendendo addirittura due grandi ceri – uno su ogni piazza – e spargendo lacrime luminose nell’invaso del Ponte di Tiberio: quanto siano importanti scadenze rituali come il Natale e il Capodanno in questa era di passaggio lo abbiamo ben capito non solo dalle reazioni scomposte di questi giorni, ma anche dal bisogno di “testimonial d’eccellenza” che, finalmente convertiti, elogiano la frugalità del Natale in casa.

Ho ritrovato una mia “letterina di Natale” di trent’anni fa che voglio farvi leggere: «Caro Babbo Natale, cosa abbiamo noi da spartire col tuo abete? Noi siamo il paese del pino marittimo, dell’olivo, del leccio, dell’olmo, del noce e del fico. Hai stravolto la nostra cultura, hai imposto la tua neve finta persino agli Emirati Arabi. Il tuo appetito di nuovi mercati è insaziabile e vedo brillare i tuoi occhi al pensiero di quando potrai trasformare i milioni di bambini indiani, oggi stremati dalla fame e dalle malattie, in altrettanti piccoli consumatori dei tuoi inutili giocattoli. Ma il tuo vero “disegno”, il tuo terrificante progetto che già sembra a buon punto, è quello di rendere permanente l’orgia di consumo che, per il momento, sei riuscito a iniettare nella “nostra” tradizione di Natale. E già le tue fabbriche lavorano a ritmo serrato per la Pasqua, le colombe seguono i panettoni senza soluzione di continuità, le uova di cioccolata e colla rimpiazzano i tuoi San Nicola di marzapane. E poi eccoti inventare, per una più rapida assuefazione, i San Valentino, i Carnevali, le Feste del Papà e della Mamma, gli onomastici, i compleanni, le feste di laurea, di matrimonio, di divorzio; neanche la Festa dei morti ha potuto sottrarsi al tuo dominio. La trama del tuo disegno è ormai capillare: non si sottraggono le migliaia di aziende al puntuale pagamento della tangente che ti è dovuta, al camuffamento della corruzione sotto forma di regali e pacchi dono: una giostra di pacchi che gira, salda conti, paga favori, li induce».

Mi vergogno un po’ di questa chilometrica auto citazione che apparve su questo stesso giornale (che si chiamava però Gazzetta invece di Corriere) il 13 dicembre 1990: «di un moralismo schifoso» come mi insultò qualcuno all’epoca, quando ancora non esistevano gli haters sui social. Chi poteva prevedere che un virus, non una rivoluzione culturale, avrebbe avuto il merito di ferire a morte il disegno imperialistico del consumismo globalizzato?

Hai visto cos’hai combinato col tuo Dpcm, caro presidente Conte? Hai fatto inciampare la slitta che portava i regali del Mes, Babbo Natale è rovinosamente caduto giù per i coppi e chissà se si salverà. Era destino. Il Coronavirus ci aveva già ricordato, con la prima ondata, quanto marcio ci fosse in Danimarca e quanti sforzi dovremo (o dovremmo) fare per reinventare la nostra economia bastonata da una pandemia che si annuncia ormai planetaria e perenne nelle sue probabili mutazioni a venire. I nostri figli vivranno di vaccini più che di Nutella.

Nessuno ricorda come, dopo ogni frenetica aspettativa, ci aspetta, con un ghigno beffardo, la frustrazione? I dissapori hanno sovente la meglio sui fantasticati sapori della festa. «Si aspetta quasi con sollievo – mi telefonava 30 anni fa Maddalena Fellini, proprio la vigilia di Natale – quell’Epifania che tutte le feste si porta via».

Mentre scrivo ho sotto gli occhi un regalo natalizio del mio amico Paolo Fabbri che avevo archiviato da qualche parte senza pormi tante domande. Me ne sono ricordato dopo l’invito del Papa a riscoprire la tradizione del presepio. È un piccolo manufatto inquietante, fatto con del filo spinato e 34 chiodi conficcati su un ceppo di legno. I chiodi sono rivestiti con minuscoli ritagli di lattine che sarebbe interessante datare, una folla di pastori, contadini e angeli che si affrettano verso un microscopico Gesù bambino steso su una manciata di fil di ferro. Il ceppo ha una etichetta di carta cerata con un nome che non riesco a decifrare. Non mi stupirebbe che fosse stato costruito durante la terribile segregazione ad Auschwitz; o forse più tardi, da un sopravvissuto. Che riappaia ora, durante questa modesta segregazione del Natale 2020, ha tutto l’aspetto di un segno.

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Maradona non è Dio

So i rischi che corro a dire quello che sto per dire. Forse non ne era cosciente Laura Pausini che ha dovuto cancellare il suo post su Diego Armando Maradona: «Fa più notizia l’addio a un uomo sicuramente bravissimo a giocare al pallone, ma davvero poco apprezzabile per mille cose personali diventate pubbliche, piuttosto che l’addio a tante donne maltrattate, violentate, abusate».

Non è colpa di Diego, le ha risposto giustamente Fiorella Mannoia, non ha scelto lui di morire il giorno dedicato alla violenza sulle donne. Ma io invece se ne parlo non faccio che perseverare nell’errore visto che ho iniziato la mia carriera di editore nell’ottobre 1970 con un libro che si intitolava Il calcio come ideologia. Sport e alienazione nel mondo capitalista che già allora, quando internet non esisteva ancora, suscitò bordate di insulti e minacce. L’ho rieditato nel 2003, quel libro, con una nuova introduzione dell’autore Gerhard Vinnai (che oggi insegna Psicologia dello sport a Brema) e ci ho costruito attorno addirittura un convegno organizzato dalla Facoltà di Scienze giuridiche, economiche e manageriali dello sport dell’università di Teramo/Atri. Che qualcuno se ne sia ricordato nella marea di articoli, citazioni, aforismi, telecronache e di polemiche, appunto, di questi giorni sugli isterismi di massa che ci sono stati propinati da giornali e tv con una indecenza davvero scandalosa? Naturalmente no, ma non deve stupire questa amnesia di massa, questo vincente e planetario negazionismo della banale verità delle cose in tempi in cui il gioco del calcio si presenta non più solo come l’ultima “ideologia” sopravvissuta alla morte delle ideologie, ma si candida a essere l’unica “religione” planetaria.

Questa nuova religione di massa, ha finalmente un Dio, Maradona! Il Dio umano, secondo la geniale dedicatio dello scrittore uruguaiano Eduardo Galeano «porque era un dios sucio, pecador, el más humano de los dioses». Un messia, in senso stretto: se il calcio è il nuovo Dio, Maradona è il suo profeta, a tutte le latitudini religiose per cristiani, animisti, indu, ebrei e musulmani ormai annacquati e pronti all’apostasia. Doveva proprio morire Maradona, per essere riconosciuto come il profeta capace di mobilitare nei cinque continenti grandi masse pronte per la Guerra santa del riscatto dalla schiavitù del lavoro, scatenando mille jihad nei vicoli napoletani come nelle terrificanti periferie di San Paolo. Questa nuova religione apparentemente pauperista e popolana attendeva da tempo il suo messia e aveva già predisposto i suoi grandi templi del mondo unificato dal calcio: dal quasi preistorico Maracanà di Rio De Janeiro (con soli 83 mila posti) fino ai futuristici “big temples” delle nuove BR (religioni del pallone): il May Day Stadium a Pyangyang in Corea del Nord con 150mila posti a sedere (ma guarda!); e il Cape Town Stadium di Città del Capo, che cambia colore con effetti spettacolari (come il concittadino Elon Musk). Ma potremmo fare il giro del mondo, dal Gelora Bunk Karno Stadium di Jakarta (Indonesia), all’Azadi Stadium di Tehran (Iran); dal Guangdong Olympic Stadium di Guangzhou (Cina), al Monumental “U” di Lima (Perù); dallo Stadio Lužniki di Mosca (Russia), al Salt Lake Stadium di Calcutta (India), al Borg El Arab Stadium ad Alessandria d’Egitto, al Bukit Jalil National Stadium di Kuala Lumpur in Malesia, fino allo Stadio Azteca di Città del Messico. Senza dimenticare gli italianissimi San Paolo e San Siro, arcaici nomi di santi che presto verranno sostituiti. Tutti oggettini da 80/90 mila posti. Spettacolari e spettacolosi. Guardate le foto su internet.

Scusate la vertigine (e la noia) di questa lista (per dirla con Umberto Eco) ma è solo per darvi l’idea tangibile di che cosa ci sia a monte di tanta recente commozione. Quei veri e propri gioielli architettonici che portano le firme dei massimi architetti mondiali sono costati miliardi. Pagati da chi? A che fini, in mondi in cui spesso e volentieri si muore di fame e fuori degli stadi citati si combattono magari guerre reali e non rituali come sul campo verde.

E oggi? Quando un virus sempre più misteriosamente burlone sembra mettere a rischio la capacità di assembramenti così clamorosamente impensabili, cosa sarà di tutte le complesse liturgie del gioco fuori e dentro il campo, fuori e dentro le ovattate sedi dei club calcistici, fuori e dentro le grandi banche dove non si gioca affatto al fantacalcio, ma si fanno volare realissimi e fantasmagorici miliardi di dollari come branchi di storni sopra i maxi stadi. Cosa rimpiazzerà i cori che prendono allo stomaco, più potenti di mille canne d’organo nella più gigantesca cattedrale della Cristianità?

Povero Maradona! Cosa ti hanno fatto? Ti hanno usato, hanno usato le tue gambe di ferro capaci di dribblare anche San Pietro in Paradiso, la tua straordinaria bravura in campo te l’hanno rubata a furia di cocaina, il tuo sorriso ingenuo, la tua sete di donne da far invidia persino ai Zanza riminesi suscita solo tenerezza, povero «pube de oro» come osai chiamarti in un vecchio libro degli esordi. Dov’erano tutte le persone che dicevano di amarti, mentre tu morivi, Diego, non come un dio, ma come tutti, come un povero rudere umano. A soli sessant’anni faceva pena vederti, un nano gonfio e zampettante che si batte il cuore col pugno per dire a tutti: vi voglio bene.

Proprio la tua fragilità ti salva, Diego. Sì, è giusto ricambiare quel bene, abbracciarti idealmente come hanno fatto papa Francesco, Fidel Castro, Pelé, Chàvez e tanti scugnizzi napoletani. Ma accettare che ti mettano sugli altari dei grandi stadi, che facciano di te il santo profeta del calcio-mammona, no, questo non possiamo farlo. Anzi, vorremmo poter sussurrare a bassa voce che dietro tutto questo si sente un forte odore di zolfo.

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