Il progetto Indigo impiega circa 400 ingegneri ed è costato sei miliardi di dollari se non ho capito male. La fabbrica di Kiryat Gat  sembra un’astronave parcheggiata in un astroporto accanto a Intel e a una dozzina di altre quisquilie dello spazio globale che per sicurezza è bene non divulgare. I parcheggi sono bunker a 6 piani , ma il traffico è nullo e per chilometri non si vede un’abitazione civile. Gli operai sembra non ci siano, né fuori né dentro la fabbrica.  Dove si producono gli inchiostri più  rivoluzionari della stampa offset digitale – distribuiti in tutto il mondo con brevetto esclusivo e segreto – lavorano in tutto 7 persone identificate con foto segnaletica reiterata all’ingresso di ogni reparto: foto stranamente distorte e stirate in largo o in lungo, come se non sapessero usare photoshop…
Nel reparto dove si assembla la nuovissima 10.000 – il modello che stampa il grande formato a fogli – l’ingegnere capo ci racconta di come bastano sei mesi, a un nuovo ingegnere o informatico  assunto, per imparare tutto sulla macchina, e altri se per imparare a programmarla a puntino, prima di essere spedito a casa del cliente che l’ha ordinata, magari in capo al mondo, per personalizzarla in relazione ai suoi bisogni e ai suoi desiderata specifici.
Avendola fatta nascere – ci dice testualmente il capo – si è ormai stabilita fra lui e la sua macchina un rapporto di empatia che gli permetterà di scovarne anche il più piccolo difetto, rendendolo capace di nutrire  ed educare  la sua creatura come farebbe una madre.
Sarà stata la suggestione di questo racconto, ma al sibilo ovattato della macchina che ci sfornava in demo i primi stupefacenti fogli di prova, di una qualità da capogiro, ho avuto la sensazione di sentir sussiurrare: “mamma!”.
E mamme sono il 20 per cento degli operai che assemblano una macchina in due settimane, in  postazioni numerate che sembrano sale parto, ben più che una fabbrica di macchine da stampa…
Dopo la sala parto n° 12, l’album con le foto ricordo dei primi figli nati, non tanti anni fa e che oggi sarebbero poco più che adolescenti con cui ho giocato al dottore, mentre sono considerati ormai dei poveri vecchietti grinzosi, incapaci di reggere la moderna produttività industriale, mette solo tristezza. Qui si lavora già ai futuribili modelli che, come numero, arrivano al 30.000, e questi israeliani sembrano davvero alieni,  tanto sono bravi a programmare le loro macchine rivoluzionarie e pessimi nell’organizzarne la loro memoria. I museali corridoi di foto e i cartelloni di pseudo-didattica collocati nelle hall di uscita della fabbrica , così come  le vetrinette coi prodotti e i packaging realizzati con le tecnologie Indigo, fanno letteralmente scendere il latte alle ginocchia già provate dalla lunga visita.
Sono un popolo giovane, proiettato al futuro, non conoscono come noi l’arte e le astuzie del ricordare. Una simpatica signora ci mostra un modestissimo mosaico romano – collocato come d’obbligo sotto una lastra di vetro che sembra plexiglass o di plexiglass che sembra vetro, appoggiato su un improbabile ghiaietto color magnesia bisurata aromatica San Pellegrino  – e dice: ” Da questo, questo…  (cerca precipitosamente fra i suoi appunti) da questo, ecco  “mosaico”  abbiamo imparato l’arte del colore per i nostri inchiostri…” . A me sembrava, giuro , un mosaico in bianco e nero… ma a ben guardare c’era anche il verde Valmarecchia e il rosso tenue… Diavoli di romani che ancora oggi pretendono di dare lezioni di colore persino alla Coca Cola. Per farne il rosso dedicato, con apposito flacone, che caratterizza il suo brand, riproposto oggi con personalizzazione dei nomi raccolti sui social network in venti lingue diverse (“share your koke with ” ) non vi dirò quanto ha investito HP…