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Secondo alcuni, Internet è un attributo di Dio. Impalpabile, ubiquo, onnipervasivo, onnisciente. Internet, in fondo, è Dio, ne custodisce tutti gli aggettivi. Parla in ogni momento, continuamente, a tutti. Come un roveto che arde in eterno. Che la ‘rete’ sia una sorta di Rosa dei Beati è convinzione di Antonio Spadaro, attuale direttore de La Civiltà Cattolica, grande studioso di letteratura (vanno letti, almeno, i suoi studi su Pier Vittorio Tondelli e la curatela delle poesie di Gerard Manley Hopkins), braccio culturale di Papa Francesco. Sulla Cyberteologia ha scritto un libro (nel 2012, per Vita e Pensiero), tradotto in tutto il mondo, ha spalancato un blog, firma una rubrica su Wired, in cui, nell’ultimo numero, parla del Sinodo sulla famiglia, “consapevole e interattivo”, straordinario non tanto (non solo) per i contenuti quanto per i contenitori. I padri sinodali, infatti, hanno scelto di esprimersi “anche via Twitter o blog, stampa o messaggi video sulle varie piattaforme. […] E così si è sviluppata una nuvola comunicativa che ha contribuito a far vivere un evento live”. La ‘nuvola’ sarà forse quella dello Spirito Santo? Al di là delle battute: Antonio Spadaro è il più lucido analista del mondo contemporaneo. Al suo cospetto Aldo Grasso non ha ancora capito cos’è il telecomando e Barak Obama pensa che twitter sia il nuovo modello dell’hula hoop. Nel discorso che ha tenuto ai Vescovi “responsabili per la comunicazione sociale”, ad Atene, il novembre scorso (e che per esteso potete leggere qui: www.cyberteologia.it), Spadaro ci spiega che MTV, una volta “emittente di ‘culto’, adesso sta subendo una crisi”, che per i giovani, ormai, “la tivù è un rumore di fondo”, ragion per cui (logica feroce) il catechismo è schiacciato: “in un tempo in cui i palinsesti sono in crisi, questa modalità di presentare la fede è in crisi”. Spadaro, perciò, è una sorta di San Paolo della rete, il discorso all’Areopago lui lo fa sul seggio di Google, ritiene che “le foto ‘taggate’ […] sono l’album fotografico live della nostra vita”, che “i video su YouTube costruiscono per frammenti il film della nostra vita”, e che perciò bisogna passare a “una pastorale attenta all’interiorità e all’interattività”. La lucidità di Spadaro è clamorosa. Ma è davvero questo quello che ci seduce del cristianesimo? Pensiamo davvero che se un Papa twitta sia più autorevole di un Santo Padre che espliciti il suo esercizio nella pura contemplazione? L’importanza che Spadaro assegna alla comunicazione mi fa pensare che la Chiesa – a differenza del cristianesimo – sia una pura strategia politica. I Parlamenti, i Governi si occupano di ‘comunicare’ perché sanno che la pubblicità è tutto. Siamo davvero certi che Dio voglia accoliti, che la grandezza della sua verità sia misurabile dallo share, dall’apprezzamento del pubblico mondiale? La Chiesa deve forse ‘vendere’ se stessa, il prodotto Vaticano, il panettone San Pietro per esistere? Ciò che conquista del Vangelo, piuttosto, è la contrapposizione (che non è assenza di dialogo) tra deserto e piazza, il desiderio di Gesù di abbeverarsi della solitudine dopo l’immersione nella folla, il suo infiammarsi a patto che siano “due o tre riuniti nel mio nome”, non due o tre miliardi. Dio si presenta nelle asperità dei monti, nel cuore del deserto, dove è la sete e il dolore: una Chiesa che si uniforma al mondo e propone la rete al posto del libro d’ore, non mi interessa.

Davide Brullo