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Quando ero giovane e ingenuo aprivo la Garzantina della letteratura dal fondo. Nelle ultime pagine, infatti, c’era la lista degli scrittori Premi Nobel. Implacabile idiota, pensavo che l’onorificenza coincidesse con la grandezza estetica.

Che a Stoccolma premiassero il genio, insomma.

Devo ammetterlo: ho fatto prodigiose scoperte. Non è vero che è tutta melma ciò che luccica a Stoccolma: Saint-John Perse, Yasunari Kawabata e William Faulkner sono dei titani assoluti.

Poi, è chiaro, chi non ha giocato con le figurine? C’è T. S. Eliot ma manca Ezra Pound, c’è Hemingway ma manca Joyce, ci sono Camus e Pasternak ma mancano Proust e Céline. Più che di letteratura, però, il Nobel dà lezioni di geopolitica.

Quest’anno, come sempre schizzinosi di fronte alla realtà (andavano onorati Yves Bonnefoy, Charles Wright, Cormac McCarthy), gli accademici svedesi hanno preferito Patrick Modiano. Un francesino con il pedegree pulitissimo (in Italia lo pubblica Einaudi), per metà ebreo italiano, che ha scritto romanzi traslucidi, rarefatti, spesso con riferimenti all’occupazione nazista ambientati «in una Parigi enigmatica e ipnotica».

Che palle. Premiando Modiano, il Nobel si dimostra un alloro di retroguardia, onorando un discreto carrierista della scrittura (sotto l’ala di Queneau entra subito in orbita Gallimard), noto per essere il paroliere di Françoise Hardy e lo sceneggiatore di alcuni tra i film meno belli di Louis Malle e di Patrice Leconte.

Tuttavia, vive la France!: con Modiano i galletti arrivano a 15 Nobel, primeggiano sopra Inghilterra e Stati Uniti (12), soprattutto sopra la Germania (10). Che Stoccolma abbia dato, così, la preferenza a Hollande e una scarpata al deretano della Merkel (merito per merito, meglio il tedesco Durs Grünbein, allora)? Che miseria. Il Nobel di Francia più azzeccato? A Samuel Beckett. L’irlandese a Parigi.
Davide Brullo