Autore: Mario Guaraldi (Pagina 17 di 29)

In occasione della Giornata della Memoria

Non ho mai avuto occasione di vedere il volto di Ardea Montebelli. Ma grazie alla lettura di questi suoi componimenti, con gli occhi della fantasia individuo chiaramente i tratti etico-psicologici di una persona che, a sessant’anni di distanza dalla Shoah, ha la forza di tuffarsi senza salvagente nell’oceano senza fondo della più grande tragedia della storia ebraica: una forza che – ne sono certo – Ardea trae dalla convinzione che soltanto la fatica di “scrutare l’abisso del male” può dare un esito e un significato all’impegno di creare ponti che colleghino e avvicinino spiritualmente il popolo della Bibbia ai battezzati di Gesù di Nazareth.
Per molti cristiani e per tutte, o quasi tutte, le loro Chiese, la Shoah ha rappresentato lo stimolo a ripensare in profondità le loro relazioni con il popolo ebraico. Non è questa la sede per documentare l’impatto della Shoah sull’autocoscienza cristiana: un lavoro che esigerebbe di ripercorrere criticamente l’intera vicenda dei recenti rapporti cristiano-ebraici, soprattutto a partire dagli anni Ottanta e Novanta del ventesimo secolo.
Saltando a piè pari i passaggi – anche i più ricchi di valenze simboliche – offerti negli ultimi decenni dalle varie Chiese cristiane, mi limito qui a menzionare il testo redatto nel 1994 dai vescovi ungheresi, e da loro sottoscritto assieme al Consiglio ecumenico delle Chiese in Ungheria, nel quale la Shoah è definita “un peccato imperdonabile”. E ricordo, ancora, la “dichiarazione di pentimento” verso gli ebrei francesi che alcuni esponenti dell’episcopato di Francia pronunziarono nel 1997 presso il memoriale del campo di Drancy. Si tratta di un documento che afferma qualcosa di molto coraggioso e inedito per lo stile ecclesiastico: “Oggi
confessiamo che questo silenzio fu una colpa. Come pure riconosciamo che allora la Chiesa in Francia venne meno alla sua missione di educatrice delle coscienze, e che per questo essa porta insieme al popolo cristiano la responsabilità di non aver prestato soccorso sin dai primi momenti, quando la protesta e la protezione erano possibili e necessarie, anche se in seguito vi furono innumerevoli atti di coraggio. È un fatto che noi oggi riconosciamo. La debolezza della Chiesa in Francia e la sua responsabilità verso il popolo ebraico fanno parte della sua storia. Noi confessiamo questa colpa.”

“Conforta la tua fedeltà / Signore mio, Dio di Israele. / Sei il bene, / tutto il bene, / interminabile risposta / alla mia coscienza, / custode dei miei abbandoni / dei miei canti.”, scrive Ardea Montebelli. E più avanti: “Di noi avanza solamente / l’attesa amara / e il folle attrito / che si annida nella carne. / Come mendicanti / picchiamo alla tua porta / da stranieri.” “Come un amore / riannoda ed apri / vecchi discorsi.”

Sui versi dolenti di Ardea si stende – quasi per un’inespressa intenzione di risarcimento – l’ombra lunga dell’antigiudaismo e della plurisecolare violenza dei cristiani contro gli ebrei, così come della partecipazione attiva o della complicità passiva di molti cristiani nei crimini che hanno prodotto la Shoah. Ardea accetta di porsi nella prospettiva degli ebrei perseguitati e di stare sotto il loro sguardo. La poetessa compie così la sua autocoscienza. Ma la sua verità non è mera autoreferenza, bensì apertura all’alterità divina e disponibilità/responsabilità verso coloro cui tale verità è destinata.
Nelle parole intrise di spiritualità di Ma tu non dartene tormento avverto l’eco della riflessione colma di coraggio del pastore protestante Martin Stoehr: “Noi cristiani non potremo mai più lasciarci alle spalle Auschwitz, né potremo andare oltre Auschwitz da soli, ma soltanto in compagnia delle vittime.”

dall’Introduzione di Bruno Segre al libro di poesie di Ardea Montebelli, Ma tu non dartene tormento scaricabile cliccando qui

Cover

Da editore a banchiere della conoscenza

 

Comunicazione di Mario Guaraldi al Convegno sul tema
Le biblioteche di fronte alle sfide del futuro
Lugano 23 ottobre 2015

(Guaraldi_Da editore a banchiere della conoscenza)

Non so come questa immagine del Banchiere mi sia venuta in mente pensando al futuro dell’editoria: io che, figlio di un Direttore di Banca, costretto a entrare precocemente nel più odioso fra i santuari pagani del Dio denaro, ho detestato con tutte le mie forze le logiche disumane della finanza e la perversione della organizzazione sociale che ne è figlia, la società del consumo.

È successo qualche anno fa mentre lavoravo ad alcune mie lezioni universitarie (poi divenute un libretto, Radici di carta frutti digitali, che allego globalmente agli atti di questo incontro come fonte del ragionamento che cerco ora di ampliare). Parallelamente alla geniale intuizione del bengalese Mohammed Iunus, l’editore di cultura vi veniva immaginato come un banchiere che “presta capitali di conoscenza a chi ne ha bisogno per crescere nella giustizia. Il suo digital lending diventa non solo strumento di innovazione sul terreno della nuova economia del libro, ma condizione di sviluppo e di democrazia”.

Mi perdoneranno dunque i banchieri svizzeri per l’appropriazione (non del tutto indebita) di questo titolo e di questo ruolo che, seguendo l’esempio del vecchio “Passator cortese” della mia amata Romagna, intendo qui regalare all’editore del futuro.

La visione che tenterò di trasmettere in questa comunicazione, attiene in effetti ad un mondo in cui denaro e merci (libri inclusi, merci “nobili”!) non saranno più il motore propulsivo delle società evolute, bensì la “Conoscenza”, vale a dire i contenuti immateriali di ciò che chiamiamo “cultura”. L’Utopia, come ben sapete, è l’antidoto all’entropia. E il mondo del libro è ormai estenuato dall’entropia
innestatasi nel sistema produttivo e distributivo che lo ha fin qui sorretto nella sua dimensione di merce cartacea.

Mi consola comunque il fatto di non essere solo a esplorare questi pericolosi territori utopici.

Un economista un po’ matto (come il cappellaio di carroliana memoria), Umberto Sulpasso, mio amico, un paio di anni fa pubblicò per il Saggiatore un breve saggio intitolato Darwinomics in cui introduce il concetto di Gross National Knowledge Product, il PNS, Prodotto Nazionale del Sapere, come alternativa al rozzo e ormai decrepito PIL. L’autore vi sosteneva la impellente necessità di un’evoluzione planetaria verso una nuova economia della conoscenza (pena lo scatenamento di un apocalittico conflitto geopolitico globale per la gestione delle risorse economiche disponibili).

Doppio salto mortale: dal cappellaio-economista un po’ matto a Papa Francesco, che matto proprio non mi sembra! Lui, i territori di Utopia sembra praticarli quotidianamente, da quando è stato eletto “Vescovo di Roma”, nelle omelie pronunciate dal suo asilo politico di Santa Marta. Ha poi rincarato la dose con la sua prima Enciclica, Laudato si’, dove fin dalle prime pagine si elencano gli assi portanti che reggono il futuro della “casa comune” dell’umanità a partire dalla critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia con l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso.

La visione di una diversa economia del libro è in realtà ancora ben lungi dall’essere un sistema concettuale sostenibile. Personalmente confesso di avere le idee sempre più confuse al riguardo e per il momento mi limiterò soprattutto a correggere il tiro delle precedenti “visioni” che a torto mi hanno dato fama di “profeta della rivoluzione digitale” nel mondo del libro. Si tratta infatti di profezie quasi totalmente errate!

E giacché queste esse furono pronunciate nel 2006 e nel 2012 proprio in questa sede, ho accolto più che volentieri il terzo invito del Direttore della Biblioteca Cantonale di Lugano, che anche oggi ci ospita, per fare almeno pubblica ammenda dei miei errori se anche non riuscirò a dire qualcosa di più sensato sul futuro che ci attende. Come scriveva il semiologo Paolo Fabbri nella sua introduzione alle mie Profezie da due soldi “l’errore di previsione del profeta è allora la conseguenza dell’efficacia della profezia (self fulfilling prophecy): il profeta efficace è quello che si sbaglia, perché riesce così a trasformare il mondo!”.

Forse il mondo editoriale si è trasformato un pochino anche grazie alle mie errate visioni. Ma l’errore resta. E va analizzato…

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Itaca Sunrise di Francesca Pirrone – Assenze, attese, incontri

Copertina Itaca Sunrise

La breve e intensa esperienza contenuta in questo romanzo consegna al lettore un intreccio di emozioni che si dipanano nel corso della vicenda attraverso l’alternarsi delle voci dei protagonisti, presentati sempre nel binomio uomo-donna. La voce, si sa, è la risultante di un complicato processo interiore che giunge a pieno compimento solo quando è espresso, detto: solo allora un pensiero cessa di essere tale per trasformarsi in parola detta, pronunciata, a voce appunto. È nel punto d’intersezione tra queste due istanze che la scrittrice si cimenta nel raccontare della probabilità, nell’atmosfera rarefatta di un pensiero che si forma, dicendosi senza essere detto e ponendosi in un dialogo intenso con un altro io a cui far rima, in un crescendo di rimandi e di risposte a domande non poste. Così il lettore è condotto nel mondo dell’attesa, della probabilità.

Ho contato i giorni come solo un matematico sa fare. Li ho contati per sopravvivere al passare inesorabile del tempo, per abbandonare l’idea dell’attesa e consegnarmi piuttosto al numero dell’attesa.

Questo ci dice una delle voci del racconto ponendo il lettore di fronte ad uno dei grandi drammi del nostro tempo: l’attesa. Il momento della probabilità, del ventaglio di possibilità e impossibilità che si aprono di fronte all’essere umano e alla sua ansia di non vanificare la propria vita nell’attesa dell’improbabile. Condizione necessaria affinché si produca l’attesa è l’assenza, ed è da questo elemento che prende le mosse l’intera vicenda; i due personaggi dialogano e lo fanno attraverso i loro monologhi: nessuno può “sentire” quello che si dicono, forse nemmeno loro stessi. L’armonia di domanda e risposta si svolge su un piano che non è quello della parola materiale, ma dell’emozione, nel suo trasformarsi in pensiero espresso ma non detto. Non detto perché, fondamentalmente, non c’è un “io” materiale a cui rivolgersi e l’idea di questo “io” assente è ancor più sostanziale della sua stessa presenza fisica.
L’abilità della scrittrice consiste, appunto, nell’aver creato un “dialogo amoroso” che, a ben guardare, va ben oltre la tematica erotica, per trasformarsi in una disamina ontologica: non è l’amore a mediare le vite dei personaggi, a suggerire loro pensieri ed emozioni, bensì la loro stessa essenza di esseri umani, esseri capaci di amore.

Chi sono io? Chi sono?

Così si presentano i personaggi fin dalle prime righe ponendo il lettore di fronte ad una di quelle domande “fatali”, dalle quali i più fuggono, procrastinando una risposta in un futuro incerto quanto la durata di un arcobaleno. Se è vero che, per dirla con le parole di Montale: Non sappiamo quale sortiremo domani, se oscuro o lieto – bene è iniziare piuttosto a domandarci chi siamo, come i personaggi del racconto ci suggeriscono, per poi scoprirci essere solo probabilità, occasioni da sfruttare o lasciare per strada nel corso delle nostre esistenze.
All’attesa segue inesorabilmente l’incontro: è in quel momento che l’attesa di una vita può concretizzarsi nel dirsi, nel raccontarsi. Ma proprio allora la parola manca, tutto è affidato all’evanescenza di un sorriso, alla fugacità di uno sguardo dove l’essere è sovrastato dal carico emotivo del suo essere pensiero e non può far altro che tacere. In tal senso, allora, l’incontro si esaurisce ancora una volta nel silenzio, nel non detto. Ancora una volta è il campo delle possibilità del pensiero e dell’emozione a prendere il sopravvento sulla concretezza della parola espressa. Nessuno verrà mai a dirci se abbiamo assistito ad una pura fantasticheria, all’esercizio sfrenato delle passioni emozionali che non danno vita ad una storia d’amore concretamente vissuta. Di questo l’autrice tace e, tacendo, ci suggerisce forse di pensare alla inutilità di intendere la vita nelle sue manifestazioni concrete, materiali: la vera vita è sfuggente, mutevole, si manifesta come puro pensiero e la parte di vita attiva, che inesorabilmente ci caratterizza e ci classifica nel mondo, va ascritta alla sfera delle possibilità, a ciò che siamo stati, a ciò che saremo, a ciò che avremmo potuto essere.

Antonio Moraca

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