Non ho mai avuto occasione di vedere il volto di Ardea Montebelli. Ma grazie alla lettura di questi suoi componimenti, con gli occhi della fantasia individuo chiaramente i tratti etico-psicologici di una persona che, a sessant’anni di distanza dalla Shoah, ha la forza di tuffarsi senza salvagente nell’oceano senza fondo della più grande tragedia della storia ebraica: una forza che – ne sono certo – Ardea trae dalla convinzione che soltanto la fatica di “scrutare l’abisso del male” può dare un esito e un significato all’impegno di creare ponti che colleghino e avvicinino spiritualmente il popolo della Bibbia ai battezzati di Gesù di Nazareth.
Per molti cristiani e per tutte, o quasi tutte, le loro Chiese, la Shoah ha rappresentato lo stimolo a ripensare in profondità le loro relazioni con il popolo ebraico. Non è questa la sede per documentare l’impatto della Shoah sull’autocoscienza cristiana: un lavoro che esigerebbe di ripercorrere criticamente l’intera vicenda dei recenti rapporti cristiano-ebraici, soprattutto a partire dagli anni Ottanta e Novanta del ventesimo secolo.
Saltando a piè pari i passaggi – anche i più ricchi di valenze simboliche – offerti negli ultimi decenni dalle varie Chiese cristiane, mi limito qui a menzionare il testo redatto nel 1994 dai vescovi ungheresi, e da loro sottoscritto assieme al Consiglio ecumenico delle Chiese in Ungheria, nel quale la Shoah è definita “un peccato imperdonabile”. E ricordo, ancora, la “dichiarazione di pentimento” verso gli ebrei francesi che alcuni esponenti dell’episcopato di Francia pronunziarono nel 1997 presso il memoriale del campo di Drancy. Si tratta di un documento che afferma qualcosa di molto coraggioso e inedito per lo stile ecclesiastico: “Oggi
confessiamo che questo silenzio fu una colpa. Come pure riconosciamo che allora la Chiesa in Francia venne meno alla sua missione di educatrice delle coscienze, e che per questo essa porta insieme al popolo cristiano la responsabilità di non aver prestato soccorso sin dai primi momenti, quando la protesta e la protezione erano possibili e necessarie, anche se in seguito vi furono innumerevoli atti di coraggio. È un fatto che noi oggi riconosciamo. La debolezza della Chiesa in Francia e la sua responsabilità verso il popolo ebraico fanno parte della sua storia. Noi confessiamo questa colpa.”

“Conforta la tua fedeltà / Signore mio, Dio di Israele. / Sei il bene, / tutto il bene, / interminabile risposta / alla mia coscienza, / custode dei miei abbandoni / dei miei canti.”, scrive Ardea Montebelli. E più avanti: “Di noi avanza solamente / l’attesa amara / e il folle attrito / che si annida nella carne. / Come mendicanti / picchiamo alla tua porta / da stranieri.” “Come un amore / riannoda ed apri / vecchi discorsi.”

Sui versi dolenti di Ardea si stende – quasi per un’inespressa intenzione di risarcimento – l’ombra lunga dell’antigiudaismo e della plurisecolare violenza dei cristiani contro gli ebrei, così come della partecipazione attiva o della complicità passiva di molti cristiani nei crimini che hanno prodotto la Shoah. Ardea accetta di porsi nella prospettiva degli ebrei perseguitati e di stare sotto il loro sguardo. La poetessa compie così la sua autocoscienza. Ma la sua verità non è mera autoreferenza, bensì apertura all’alterità divina e disponibilità/responsabilità verso coloro cui tale verità è destinata.
Nelle parole intrise di spiritualità di Ma tu non dartene tormento avverto l’eco della riflessione colma di coraggio del pastore protestante Martin Stoehr: “Noi cristiani non potremo mai più lasciarci alle spalle Auschwitz, né potremo andare oltre Auschwitz da soli, ma soltanto in compagnia delle vittime.”

dall’Introduzione di Bruno Segre al libro di poesie di Ardea Montebelli, Ma tu non dartene tormento scaricabile cliccando qui

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