Mese: Ottobre 2014 (Pagina 1 di 2)

Luzi fa 100 anni. E il critico del “Corriere” gli fa le scarpe

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Dramma scolastico. I liceali al limite arrivano a Ungaretti&Montale, forse transitano per Calvino&Pavese, probabilmente hanno sentito parlare di Pasolini. La scuola racconta la letteratura come una sfilza di lapidi: sono tutti talmente morti, gli scrittori, che pare che perfino la letteratura non esista più, sopita nel fango.

Peccato per i ragazzini. Che fan bene a tenersi lontani da parecchi autori viventi, ma si perdono il gusto di autori fenomenali.

Mario Luzi, ad esempio, che tra due giorni compirebbe 100 anni. Degli scolari di oggi potrebbe essere il trisnonno, ma i suoi versi grondano di una lucente fanciullezza che al suo cospetto un maturando del 2014 è già vecchio, un matusa, un morto vivente.

Miracoli della poesia, che ha il tempismo di garantire, a noi poveri umani, un bagliore di immortalità. All’orrore scolastico, però, va aggiunto il cattivo servizio che ai poeti fanno i critici letterari. I quali per sbarcare il lunario scrivono sui giornali e per vendicarsi del fatto che hanno l’obbligo di parlar bene dei viventi e di lustrar l’argenteria dei potenti, se la pigliano coi morti. Il modenese Roberto Galaverni, che compie 50 anni quando Luzi ne farebbe il doppio, ad esempio, ne ha fatta di strada.

Adesso scrive sul Corriere della Sera, un tronfio trionfo, e ieri, celebrando il centenario di Luzi (leggetelo, vi prego, Garzanti ha da poco rieditato tutte le Poesie), si è messo a fare il sofista. «Va dato merito a questo poeta, allora, dell’investimento etico che è stato tutt’uno con la sua crescita poetica», scrive, dicendo però che «i suoi ultimi vent’anni» (non 5,7 o 10, 20!) «peccano spesso per un di più di eloquenza, d’astrattezza, di rarefazione intellettuale».

A Galaverni piace la più la poesia da tè delle cinque, di quelli che meditano tranquillamente sullo schifo quotidiano, senza mai sporcarsi le mani, rispetto a quella dai concetti vertiginosi. Casi suoi. Certo, se uno legge quell’articolo gli vien voglia di leggere tutto tranne Luzi.

Che poi, non è che Galaverni abbia dato sfoggio di ardimento bibliografico: il suo lavoro più importante è l’antologia Nuovi poeti italiani contemporanei. Dedita a scandagliare ciò che di buono si verseggiava dopo la generazione di Luzi, la stampò Guaraldi nel 1996. Due anni prima Luzi aveva pubblicato il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini.

Un libro di virile splendore. Caro Bob, stai sereno.

Addio Gerardo

Addio Gerardo,

l’abbiamo prefigurato tante volte questo momento, è una vita che ci confrontiamo.

Abbiamo iniziato litigando ferocemente per le mie recensioni alle tue Giornate del lontano 1990. Poi siamo diventati amici e il dialogo è stato serrato, la stima reciproca e crescente.

Non voglio fare un necrologio, preferisco continuare a farti arrabbiare. O forse no.

In ogni caso come hai richiesto nella tua ultima lettera terrò un occhio anche io sul futuro delle tue Giornate.
Con le lacrime agli occhi.

Mario Guaraldi

Estratto da La mia Rimini di Federico Fellini

Estratto da Non solo mattoni di Augusto Stacchini

Estratto da Profezie da due soldi di Mario Guaraldi

 

Il Nobel? Un premio di retroguardia. Ovvero: schiaffo al deretano della Merkel

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Quando ero giovane e ingenuo aprivo la Garzantina della letteratura dal fondo. Nelle ultime pagine, infatti, c’era la lista degli scrittori Premi Nobel. Implacabile idiota, pensavo che l’onorificenza coincidesse con la grandezza estetica.

Che a Stoccolma premiassero il genio, insomma.

Devo ammetterlo: ho fatto prodigiose scoperte. Non è vero che è tutta melma ciò che luccica a Stoccolma: Saint-John Perse, Yasunari Kawabata e William Faulkner sono dei titani assoluti.

Poi, è chiaro, chi non ha giocato con le figurine? C’è T. S. Eliot ma manca Ezra Pound, c’è Hemingway ma manca Joyce, ci sono Camus e Pasternak ma mancano Proust e Céline. Più che di letteratura, però, il Nobel dà lezioni di geopolitica.

Quest’anno, come sempre schizzinosi di fronte alla realtà (andavano onorati Yves Bonnefoy, Charles Wright, Cormac McCarthy), gli accademici svedesi hanno preferito Patrick Modiano. Un francesino con il pedegree pulitissimo (in Italia lo pubblica Einaudi), per metà ebreo italiano, che ha scritto romanzi traslucidi, rarefatti, spesso con riferimenti all’occupazione nazista ambientati «in una Parigi enigmatica e ipnotica».

Che palle. Premiando Modiano, il Nobel si dimostra un alloro di retroguardia, onorando un discreto carrierista della scrittura (sotto l’ala di Queneau entra subito in orbita Gallimard), noto per essere il paroliere di Françoise Hardy e lo sceneggiatore di alcuni tra i film meno belli di Louis Malle e di Patrice Leconte.

Tuttavia, vive la France!: con Modiano i galletti arrivano a 15 Nobel, primeggiano sopra Inghilterra e Stati Uniti (12), soprattutto sopra la Germania (10). Che Stoccolma abbia dato, così, la preferenza a Hollande e una scarpata al deretano della Merkel (merito per merito, meglio il tedesco Durs Grünbein, allora)? Che miseria. Il Nobel di Francia più azzeccato? A Samuel Beckett. L’irlandese a Parigi.
Davide Brullo

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